Quando è il nome del cofanetto, uscito per Warner Music, che racchiude in tre cd il meglio del repertorio del grande musicista napoletano, a tre anni dalla sua scomparsa. I cinquantasette brani che compongono la raccolta, e che scandiscono diciotto, fondamentali anni della produzione musicale di Pino Daniele (dal 1981 al 1999), rappresentano un’occasione splendida per avvicinarsi o ripercorrere la sua innovativa carica poetica e musicale – tale da donare un’energia unica alla già trionfale tradizione partenopea, cui sembrava assai difficile aggiungere qualcosa di nuovo. E invece, sin dal primo album (il meraviglioso Terra mia, 1977), Pino Daniele introduce un uso mutato ed estremamente consapevole del dialetto – per nulla veicolo dell’immagine di una città pittoresca resa cartolina e stereotipo, bensì strumento aspro e struggente al servizio della rabbia, del disagio, del sogno, della vita nei vicoli tra la Pignasecca e il quartiere Porto, lì dove è dato assistere alla forza dirompente di un lirismo inaspettato. Nelle sue canzoni ci sono il chiasso dei bambini a scacciare la solitudine, le carezze al cuore che infondono fiducia, i passi silenziosi lungo le scale di affollatissimi palazzi secenteschi, la difesa della libertà d’identità, le nottate insonni che lasciano solchi nell’animo, gli occhi malinconici rivolti oltre l’oceano e le insanabili ferite della corruzione e del malcostume. Una capacità narrativa commovente che si accompagna alla puntigliosa ricerca musicale e strumentale, aprendosi vivacemente alle sonorità del blues e della tradizione mediterranea e mediorientale. Di queste magiche combinazioni di suoni e parole, del giocoso Tarumbò e dei misteriosi codici della parlesia (la lingua segreta dei musicisti napoletani) Pino Daniele ci lascia tracce luminose, mentre la sua Appocundria, inserita persino dall’Enciclopedia Treccani tra le sue voci, continua a spiegarci un po’ di noi: «Appocundria me scoppia/ Ogne minuto ‘mpietto/ Peccè passanno forte/ Haje sconcecato ‘o lietto/ Appocundria ‘e chi è sazio/ E dice ca è diuno/ Appocundria ‘e nisciuno/ Appocundria ‘e nisciuno»

Diana A. Politano

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