“Il club degli uomini” di Leonard Michaels

Sul finire degli anni Settanta, in tempi di collettivi e gruppi femministi in cui le donne conquistavano spazi e forme nuovi per discutere «di rabbia, di identità, di politica», Leonard Michaels sceglie di ambientare il suo romanzo Il club degli uomini (da poco riedito, a quindici anni dalla scomparsa dello scrittore, per Giulio Einaudi Editore). Con una narrazione condotta in prima persona nelle parole del protagonista, Michaels introduce il lettore all’inaspettata esperienza di una sola notte in compagnia di un singolare consesso: un club di uomini, «una normale occasione sociale al di fuori del lavoro e della vita coniugale», momentanea sospensione esistenziale in cui godere dell’ottima compagnia di gente solida, di professionisti di successo, per lasciare che accada quel che tutti, più o meno consapevolmente, desiderano accada – ovvero l’insinuarsi, nell’apparente solidità di quelle vite, di una crepa che lasci intravedere quel bruciante senso di disfatta e di incompiutezza che non manca, di tanto in tanto, di tendere minacciosi agguati.

Succede così che uomini tra loro estranei si ritrovino a raccontare frammenti di un passato inconfessabile di cui tuttavia si avverte la mancanza, a condividere la frustrazione che viene dall’aver visto scomparire un’ipotesi di felicità e di appagamento o a riscoprire, dopo l’abbandono di ogni iniziale esitazione, il violento piacere del gioco, dell’appartenenza al gruppo, del naturale riproporsi di dinamiche che sembravano appartenere ad un’adolescenza ormai lontana. A fare da sfondo al catartico riemergere dell’autenticità, il chiuso recinto rappresentato da un salotto che «esprimeva (…) richieste d’attenzione, eccitazione e una paura patologica della noia»: un contesto-simbolo da frantumare con gioia misogina e poi, all’occorrenza, da ricomporre, perché altro non si è se non bravi ragazzi e «nessuno doveva negarlo».

Diana A. Politano

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