“Stupor”: il destino di un uomo diventato Imperatore – di Sebastiano Coletta

Il destino è una strada già segnata che nessuno ha il potere di cambiare. Nemmeno un imperatore. Andato in scena il 12 e 13 aprile scorsi al teatro “Abeliano” di Bari, “Stupor” è il racconto in “πίνακες” (in greco “quadri”) della vita di Federico II Hohenstaufen, tratto da alcuni romanzi del giornalista Raffaele Nigro. Un uomo complesso e assolutamente moderno nel pensiero, Federico, che Gianpiero Francese ha saputo far emergere sintetizzandolo in una regia che non tradisce le emozioni, che riteniamo essenziali a teatro. Intenso e toccante è, infatti, il monologo del fantasma di Costanza d’Altavilla, madre di Federico, che introduce il dramma. Personaggio profondamente vissuto da Giusy Frallonardo, gli occhi pieni di luce di una donna mai stata figlia (il padre, re Ruggero II, era morto prima che venisse al mondo), che, dopo aver retto per un anno l’impero lasciatogli dal marito Enrico VI Barbarossa, scompare nel 1198, non senz’aver affidato il piccolo Federico – partorito a quarant’anni, a Jesi – alla tutela di papa Innocenzo III. Solo l’appoggio della Santa Sede, infatti, avrebbe potuto garantirgli la successione al trono. Dante, nel Paradiso della “Comedìa”, incontra Costanza nel primo cielo della luna, indicata da Piccarda Donati tra le anime che non hanno saputo adempiere fino in fondo ai propri voti. Espressiva, sommessa, composta ed essenziale nella gestualità, Giusy Frallonardo è riuscita ottimamente a rendere con il cuore l’infinito desiderio d’amore di Costanza, del quale la storia, in cambio della notorietà, l’ha privata. In fondo anche Federico, interpretato appassionatamente da Erminio Truncellito, è combattuto tra amore e ragion di stato, che, nella pièce, lo porta a scontrarsi con le profezie di un falcone cieco che gli fa visita di tanto in tanto. Ci sembra di cogliere un raffinato riferimento all’indovino Tiresia, privato della vista per poter vedere il futuro degli uomini. E, dal futuro, non si può fuggire, come c’insegna Sofocle nell’ “Edipo re”: qualunque scelta, apparentemente libera, non potrà che condurre al finale scritto nell’anima di ciascuno di noi. Truncellito ha tratteggiato, con il pennello di un sicuro talento e una voce profonda che ben si presta a un ruolo drammatico, l’esistenza chiaroscurale ed estrosa di Federico, perdutamente innamorato di Bianca Lancia, ma costretto a sposare dapprima Costanza d’Aragona e, dopo la scomparsa di quest’ultima, Isabella di Brienne. Proprio durante il matrimonio con Jolanda nell’antica cattedrale romanica di Brindisi – di cui oggi, dopo i restauri settecenteschi, non ci resta molto – Federico incontra lo sguardo di Bianca Lancia e ne rimane folgorato. La passione può trasformarsi in ossessione che logora e distrugge chi la subisce. Bianca Lancia, rinchiusa in diversi castelli svevi (si ricorda soprattutto Gioia del Colle) nell’attesa di un amore che non fosse sottomesso alle logiche del potere, si abbandona, desolata, tra le braccia della morte, dopo aver dato alla luce i tre figli di Federico. E’ una candida e sensibile Maria Grazia Zingariello a dare voce e corpo al turbamento di Bianca Lancia, fedele al suo sentimento fino alla morte. Perché nulla può infrangere ciò che viene dal cuore. Anche Pier delle Vigne amava il suo amico imperatore, tanto da rientrare nella cerchia più ristretta della corte federiciana, fino alla nomina, nel 1246, di protonotaro e logoteta del Regno di Sicilia. Giuseppe Ranoia ha permesso sobriamente agli spettatori di sfiorare la dignità di un uomo e l’affetto di un amico che cerca di consigliare al meglio Federico. Partecipa alla stesura delle “Constitutiones Regni Siciliarum”, ma, caduto in disgrazia, viene fatto arrestare per tradimento, accecare e rinchiudere in carcere (forse a Pisa), dove si suicida nel 1249. Suggestiva la lettura dei versi dal Canto XIII dell’Inferno dantesco, dov’è proprio Pier delle Vigne a parlare: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi, // che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: / fede portai al glorioso offizio, / tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ‘ polsi”. Sempre più solo, il Federico di Gianpiero Francese si ritrova a dialogare con Francesco d’Assisi, in scena un pacato Giovanni Pelliccia. Del presunto incontro tra i due, che sarebbe avvenuto nel castello di Bari, non ci sono testimonianze storicamente attendibili, ma piace pensare che un uomo profondamente laico e avvezzo ai piaceri mondani, qual era Federico, abbia davvero discusso con chi credeva nella pace e nella semplicità pura che, più di ogni potere terreno, avvicina a Dio. Nell’ultimo quadro, Federico, ormai morente – siamo nel 1250 -, si accascia a terra, non prima di aver visto un’ultima volta il falco, proiettato su un telo trasparente (il progetto multimediale è di Gennaro Tritto). Un uccello cieco, come Pier delle Vigne e lo stesso Imperatore, che per superbia – alla stregua dell’Odisseo nel Canto XXVI dell’Inferno – aveva sfidato con disprezzo il destino, senza capire che proprio il falco lo beffava, consigliandolo all’incontrario perché seguisse i piani superiori alla volontà umana. Se l’attacco sul vuoto del primo movimento della Quinta Sinfonia di Beethoven raffigura il destino che bussa con violenza alla porta del cuore, il dialogo finale tra Federico e il falco rimanda al contrasto tra fiati e archi in quel turbine beethoveniano tra la vita e la morte, che si fa sfida impari nell’effimera parentesi dell’esistenza umana. I leggiadri disegni coreografici della ballerina Federica Posca si univano perfettamente alle immagini proiettate e alle musiche, legando i personaggi al simbolico filo del destino che ci rende parte di un tutto. La scenografia era volutamente lasciata alla fantasia degli spettatori (esigui, forse, a causa di una comunicazione non particolarmente efficace), statiche le scene, concepite quasi come affreschi medievali che prendono vita. Uno spettacolo che, pur nel limitato movimento scenico, fa vibrare le corde dei sentimenti. Più volte Raffaele Nigro, volto noto della Rai e de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, ha reso lo “Stupor mundi” protagonista delle sue opere: dal dramma in due atti “Hohenstaufen: i fantasmi di Federico”, del 1986, al più recente romanzo storico “Il cuoco dell’imperatore” (La nave di Teseo, 2021), passando per “Il custode del museo delle cere” (Rizzoli, 2013). Federico II ci lascia l’esempio di un uomo ricco di contrasti, che amava le scienze e la poesia, l’architettura e la natura. Il falco, l’animale a cui più teneva e che usava per le celebri battute di caccia, è il simbolo della sua intelligenza inconsueta e acuta. Un uomo che, anche se non è riuscito a vincere il destino, può dire di averlo affrontato – usando l’espressione di Farinata degli Uberti nel Canto X dell’Inferno – “A viso aperto”.

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