Mentre a Barcellona muoiono altri uomini e donne in nome di dio e della religione pubblichiamo questa recensione sull’ultimo libro del filosofo e rabbino Jonathan Sacks.

Jonathan Sacks è un filosofo e un rabbino riconosciuto a livello mondiale. Si inserisce nella migliore tradizione ebraica, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Ha ricevuto 16 lauree ad honorem. Ha scritto più di 25 libri.

L’ultimo dal titolo “Non nel nome di Dio”[1] è un bellissimo testo, nato “da molti incontri, nel corso degli anni, con persone di fedi diverse che hanno avuto il coraggio di mostrare che la nostra umanità generale trascende le nostre differenze”[2]. Ha per tema un fenomeno attualissimo: “la violenza religiosa” e l’estremismo religioso, la cui più crudele manifestazione è l’uccisione di vite umane innocenti in nome di Dio e della religione.

Combattere questa violenza, per Sacks, è una battaglia determinante del XXI secolo.

Il libro è diviso in tre parti: 1) Malafede (con 5 capitoli: a- la malvagità altruistica; b- violenza e identità; c- dualismo; d- il capro espiatorio; e- rivalità fraterna); 2) Fratelli (con 4 capitoli: f- Fratellastri; g- La lotta con l’angelo; h- Il rovesciamento dei ruoli; i- Il rigetto del rifiuto); 3) Il cuore aperto (con 6 capitoli: l- Lo straniero; m- L’universalità della giustizia, la particolarità dell’amore; n- Testi difficili; o- Rinunciare al potere; p- Liberarsi dall’odio; r- La volontà di potenza o la volontà di vita).

La sfida nel XXI sec.: l’estremismo religioso politicizzato

 

Molti hanno scritto sul legame tra religione e violenza. C’è chi ha sostenuto che la religione è la prima fonte della violenza. Altri hanno sostenuto che la fonte della violenza non è la religione ma la paura e il potere. Altri ancora sostengono che la religione degli altri è fonte di violenza, non la propria.

Sacks, in questo libro, pur sostenendo che nessuna di queste tre tesi è esatta, ha un interesse più specifico e più attuale:capire e dare una risposta a una domanda semplice: perché accanto a persone per le quali la fede ha la capacità di rafforzare e promuovere la comune umanità, esistono anche persone religiose che in preda ad emozioni forti disumanizzano i loro avversari con risultati devastanti?

A partire dall’inizio del XXI secolo la religione è riemersa come forza globale nel panorama mondiale e questa emersione ha colto l’Occidente indifeso e impreparato perché esso è rimasto prigioniero di una certa narrazione religiosa del tutto superata.

Alla fine del XX secolo molti sostenitori del laicismo erano giunti alla conclusione che la religione, se non proprio confutata e cancellata, era stata quantomeno resa superflua[3]. Una storia, iniziata nel XVII secolo (l’ultima grande epoca delle guerre di religione) e proseguita con un lento ma inesorabile processo di secolarizzazione prima del sapere, poi del potere e della cultura e infine della moralità, si conclude con l’avvento della economia di mercato e dello stato liberale democratico. L’epoca del vero credente, religioso o secolare, era finita.

Ma scienza, tecnologia, libero mercato e pensiero unico, che pure ci hanno dato la possibilità di raggiungere risultati senza precedenti nella conoscenza, nell’aspettativa di vita e di abbondanza (anche se non per tutti gli uomini), non forniscono però un senso alla vita, non rispondono alle domande che un uomo riflessivo si pone: chi sono? perché sono qui? come devo vivere?

La religione è tornata all’inizio di questo secolo, secondo Sacks, perché è difficile vivere senza significato.

Ma quale forma di religiosità è tornata?

La religiosità riemersa non ha quell’aspetto dolce, mistico, irenico ed ecumenico che, in Occidente, ci aspettavamo. Al contrario è tornata la religione nel suo aspetto più antagonistico ed aggressivo, pronta a dare battaglia ai nemici del Signore, a causare l’apocalisse, a porre termine al regno della decadenza e vincere la vittoria finale per Dio.

Nel XXI sec. la religiosità tenderà ad affermarsi sempre più per tre tipi di ragioni: la religione si adatta meglio a un mondo di comunicazione globale istantanea; le grandi fedi rispondono al più sostanziale dei bisogni umani: procurano una identità; in tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità. Per ragioni demografiche l’Europa è destinata a un lento e lungo declino.

La malvagità altruistica

 

Dall’11 settembre 2001 i fatti di sangue e di violenza (uccisione di deboli, innocenti, bambini, giovani e vecchi…) motivati da giustificazioni religiose sono numericamente spaventosi e riguardano tutte e tre le religioni abramitiche (ebrei, cristiani e musulmani) ma anche le altre religioni (buddhisti, indù…). I cristiani sono sistematicamente perseguitati in molte parti del mondo[4]. L’antisemitismo si è ripresentato prepotentemente mentre ancora è vivo il ricordo della Shoah. Al-Qaeda e l’ideologia islamista oggi è più forte che mai ma anche i musulmani devono fare fronte alla persecuzione nel Myanmar, in Thailandia, in Cina, nello Sri Lanka e gli stessi musulmani costituiscono la maggioranza delle vittime della violenza islamista.

Sacks descrive questo fenomeno micidiale di violenza con l’espressione “malvagità altruistica” che definisce come “il male perpetrato in nome di una causa sacra”[5], nel nome di un’utopia che si trasforma in incubi infernali. Il volto più conosciuto di questa malvagità altruistica, nel mondo post-moderno, è la religione radicale e politicizzata.

La tesi del libro è che c’è un legame tra religione è violenza ma è obliquo, non diretto.

Violenza e identità

 

All’inizio del 2° capitolo del libro, Sacks riporta la storiella raccontata da A. Turing, l’inventore del computer, The imitation game: Due amici stanno camminando nella giungla quando odono il ruggito di un leone. Il primo comincia a pensare dove può nascondersi. Il secondo si mette le scarpe da corsa. Il primo dice: ”Ma che fai? Non puoi correre più veloce di un leone!”. Il secondo risponde: “Non ho bisogno di correre più veloce del leone. Ho solo bisogno di correre più veloce di te”[6].

La storiella esprime una delle tensioni fondamentali della condizione umana: il primo soggetto cerca una soluzione collettiva. Cerca di salvare sia lui che l’amico. Il secondo opta per una soluzione naturale, quella che salverà lui a spese dell’amico.

Questo è il dilemma umano: cosa viene prima? L’altruismo o la sopravvivenza? Il bene comune o l’interesse privato? Ciascuno di noi nell’animo è santo o peccatore? Angelo o demone? Persona retta o machiavellica?

La storiella lancia il messaggio che siamo, ambiguamente, entrambi le cose: trasmettiamo i nostri geni come individui ma sopravviviamo solo in gruppo.

Dopo un interessante e documentatissimo excursus storico-filosofico, Sacks dà una prima risposta al quesito sulla relazione tra religione e violenza: all’interno del gruppo pratichiamo l’altruismo. Tra i gruppi pratichiamo l’aggressione. La religione entra in campo soltanto perché è la forza più potente mai escogitata per la creazione e il mantenimento di gruppi di vasta scala, risolvendo il problema della fiducia tra estranei.

Se, dunque, la violenza ha a che fare con l’identità, perché non abolirla? Perché dividere l’umanità in Noi e Loro e non considerarci un’umanità comune?

Interessante è l’analisi storica dei tre tentativi (il cristianesimo di San Paolo, l’illuminismo europeo, l’attuale era più individualistica di tutti i tempi) non riusciti di cancellare l’identità dei gruppi. La tendenza degli uomini a formare gruppi, di cui la religione è uno degli agenti più efficaci, è una fonte di violenza e di guerra. L’alternativa, però, di un’umanità senza gruppi o identità, è impossibile perché intollerabile.

Ma per spiegare perché delle brave persone commettano imprese delittuose e veramente malvagie è necessario qualcosa di più del bisogno della semplice identità.

Il dualismo patologico

 

Ciò che porta la malvagità altruistica a conseguenze fatali è la comprensione del mondo con la categoria della opposizione binaria: dividere l’umanità nelle categorie assolute del bene e del male, in cui tutto il bene è da una parte e tutto il male dall’altra.

Il dualismo si presenta sotto molte forme, non tutte pericolose. C’è il dualismo platonico che distingue nettamente tra mente e corpo, lo spirituale e il fisico. C’è il dualismo teologico che vede all’opera nell’universo due forze soprannaturali diverse (la luce e le tenebre). C’è il dualismo morale che vede bene e male come istinti dentro di noi, tra i quali dobbiamo scegliere. Ma c’è quello che Sacks chiama dualismo patologico che vede l’umanità divisa radicalmente e ontologicamente nell’indiscutibilmente buono e nell’irreparabilmente cattivo.

Per capire come funziona questo dualismo patologico si serve della psicologia di Freud e Klein. Esso fa tre cose: disumanizza e demonizza il nemico; vittimizza chi ne è colpito e lo sottrae alla responsabilità del male che sta compiendo. La conseguenza di questi due primi stadi è che permettono di uccidere e compiere un genocidio in nome di Dio della vita, odiando nel nome del Dio dell’amore e praticando la crudeltà nel nome del Dio della compassione.

La cultura del dualismo patologico ha portato e porta ad alcuni dei peggiori crimini della storia, perché fa sì che le persone demonizzino i loro avversari e si convincano che il male commesso per una buona e santa causa è giustificabile, anzi persino nobile.

Se ci sono delle resistenze a una tale teoria semplificata esse sono quasi sempre risolte dall’invenzione del capro espiatorio, che devia, insieme a un uso funzionale della religione, la violenza interna che altrimenti distruggerebbe il gruppo. La paranoia fa il resto.

La rivalità fraterna

Questa politica dell’odio così diffusa nel XXI secolo e in vaste parti del mondo non ha nulla di intrinsecamente religioso. Basta pensare alla Germania nazista, alla Russia stalinista, alla Cina di Mao, alla Cambogia di Pol Pot. Tuttavia è accertato che anche la rivalità fraterna religiosa è una fonte primaria di violenza. Ciò che rende l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam singolari è che le loro narrazioni di identità sono storie di rivalità fraterna per cui uno dei tre assegna un ruolo secondario e subordinato agli altri due.

Tra le tre religioni i teologi hanno ipotizzato che la tensione si fosse manifestata con la nascita del cristianesimo. Invece, Sacks dimostra che la tensione era già presente nell’ebraismo stesso, prima che ci fossero il cristianesimo e l’islam.

La Genesi: una contronarrazione

Il libro della Genesi ha come tema dominante la rivalità tra fratelli e in esso troviamo i racconti chiave della radice di questa rivalità tra le tre religioni abramitiche. E’ là che è iniziato il dramma della scelta: Isacco non Ismaele, Giacobbe non Esaù. E una lettura corrente del libro della Genesi porta a concludere che Dio sembra avere dei preferiti, che i doni del suo amore e del suo perdono sono così scarsi che li fa cadere su un popolo privilegiato e non su tutto, che se li dona a te deve toglierli a me.

Ma che succede se queste storie della Genesi non significano ciò che comunemente ci hanno insegnato significassero? Se, invece, sono state costruite su due livelli, quello di un primo significato superficiale e quello, al di sotto, di un significato più profondo?

Sacks fa e invita ad una nuova lettura dei testi biblici. Non nega che si sono testi biblici molto difficili e ci sono nelle scritture dei tre monoteismi abramitici testi che, interpretati letteralmente, portano all’odio, alla crudeltà e alla violenza assassina. Come è stato per secoli. Ma la tesi del suo libro è che la stessa Genesi indica un’alternativa alla rivalità fraterna, fonte di fratricidio e di violenza religiosa durante i secoli passati.

La rivalità fraterna come contesa per l’amore divino è una pessima idea e sminuisce ingiustamente il Dio di Abramo.

La verità che risplende in tutti i testi della Genesi, secondo la tesi del libro di Sacks, è che ciascuno di noi è benedetto da Dio e che ciascuno è prezioso ai suoi occhi. Essere figlio di Abramo significa imparare a rispettare gli altri figli di Abramo, anche se la loro strada non è la nostra. Sappiamo di essere amati e questo ci deve bastare. Insistere sul fatto che essere amati comporta che gli altri non lo siano vuol dire non riuscire a comprendere la natura stessa di quell’amore.

Questa tesi, che potrebbe apparire intimistica e solo esortativa, biblicamente si fonda sul duplice patto voluto da Dio e presente nella Genesi: quello con Noè e poi quello con Abramo. Dio ha sottoscritto due patti con noi, uno con la nostra comune umanità, l’altro con la nostra identità specifica. Il primo riguarda l’universalità della giustizia, il secondo la particolarità dell’amore, e in questo ordine. La nostra comune umanità precede le nostre differenze religiose. La presa in considerazione di questo duplice patto è la sola alternativa adeguata alla rivalità e violenza tra le tre religioni monoteistiche.

Oggi, ebrei, cristiani e musulmani, sostiene Sacks, abbandonando la volontà di potere, in nome del patto narrato dalla stessa Genesi tra Dio e tutto il mondo animato e inanimato, devono rimanere uniti in difesa dell’umanità, della volontà di vita e della libertà religiosa, del creato e della casa comune. E più che preoccuparsi del dialogo tra le religioni, dovrebberopreoccuparsi di ciò che preoccupa tutti gli esseri umani: la salute, il cibo condiviso, le migliori relazioni umane, l’ambiente. Sono i pilastri di ogni vera religione: umanizzare questa vita.

La speranza per il futuro

In un mondo di super potenze in declino, di istituzioni internazionali sclerotiche, di stati nazionali sempre più deboli, di un caos hobbesiano di guerre civili e tribali, di narrazioni religiose incomprensibili per l’uomo moderno, chi e come potrà fermare gli estremismi religiosi che sembrano oggi prevalere?

Essi non possono essere fermati con il solo intervento militare. Il primo lavoro da fare è quello di un riesame, di un’autocritica teologica, di uno smantellamento di quella teologia che porta e che giustifica la violenza e il conflitto religioso estremistico.

Alla nuova narrazione teologica e alla lotta militare per combattere la violenza motivata dalla religione che sarà una delle battaglie determinanti del XXI secolo, Sacks indica un terzo strumento: l’unità di quelle persone di fedi diverse che si impegnano con appassionata intensità convinte che l’estremismo religioso prospera quando “ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità”[7].

La lettura di questo libro, tutto da leggere e da rileggere, a me cattolico ha sorpreso, non per le documentate e interdisciplinari argomentazioni ma per soprattutto per la vigorosa autocritica dell’ebraismo, della sua teologia e della sua storia di ieri e di oggi.

A riguardo il “cambiamento” della teologia cristiana balbetta ancora. Troviamo qualche segnale di “conversione” in quella corrente teologica cristiana che sostiene che l’aspetto centrale nella vita di Gesù non è stato la religione. È stato umanizzare questo mondo così disumanizzato già ai suoi tempi.

Non so bene se almeno una parte della riflessione teologica musulmana abbia prodotto una seria bonifica dei testi del Corano.

Mi indigno quando, dopo una strage di innocenti, nel chiasso della comunicazione multimediale le dichiarazioni ufficiali sono quasi sempre orientate a combattere l’odio con altro odio. Al di là di un rito scontato in cui autorità religiose di fedi diverse stanno insieme per qualche breve incontro, non si trova spazio per raccontare che per uno o più che uccidono in nome di dio, vi sono cento, mille o più persone credenti che, aiutate da chi come Sacks ha pensato alla sua religione ebraica con onesta autocritica, hanno il coraggio di credere, pensare e di mostrare che la nostra umanità generale trascende le nostre differenze religiose.

Non è forse perché nella coscienza e nella cultura teologica del cristianesimo occidentale e dell’islam questa autocritica stenta a partire?

[1] Jonathan Sacks, Non nel nome di Dio, Confrontarsi con la violenza religiosa, Casa Editrice Giuntina, Firenze, 2017, pp.314.

[2] J. Sacks, op. cit., pag. 9.

[3] “Non abbiamo più bisogno della Bibbia per spiegare l’universo. Invece abbiamo la scienza. Non abbiamo più bisogno del rituale sacro per controllare il destino umano. Al suo posto abbiamo la tecnologia. Quando ci ammaliamo, non abbiamo necessità di pregare. Abbiamo i medici, la medicina e la chirurgia. Se siamo depressi c’è un’alternativa al conforto della religione: gli antidepressivi. Quando siamo sopraffatti dal senso di colpa, possiamo scegliere la psicoterapia al posto del confessionale. Per coloro che cercano la trascendenza ci sono i concerti rock e gli incontri sportivi. Quanto alla mortalità umana, la cosa migliore da fare, come ci dicono le rubriche giornalistiche di consigli, è non pensarci troppo spesso. Le persone possono nutrire dei dubbi sull’esistenza di Dio, ma sono ragionevolmente sicure che se non lo si infastidisce, lui non infastidirà noi” (J.Sacks, op.cit., pag. 23).

[4] “Un secolo fa i cristiani costituivano il 20 per cento della popolazione del Medio Oriente. Oggi la cifra si è ridotta al 4 per cento. Ciò che sta accadendo è l’equivalente religioso di una pulizia etnica. E’ uno dei crimini contro l’umanità del nostro tempo” (J.Sacks, op.cit., pag. 17).

Antonio Greco

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