Lo straniero di Albert Camus

L’editore Bompiani è arrivato a festeggiare una storia lunga novanta anni: un compleanno che non c’è forse maniera migliore di celebrare se non rileggendo una delle opere capitali del catalogo della casa editrice fondata da Valentino Bompiani nel 1929. Ripubblicata per l’occasione nella “Collana dell’anniversario” con la traduzione di Sergio Claudio Perroni, Lo straniero è tra i libri chiave dell’esistenzialismo, teso com’è all’indagine sul senso del vivere e drammaticamente incline a riconoscere l’assurdo e l’estraneità dell’uomo al mondo. L’insensatezza dell’omicidio di cui si macchia Meursault (il modesto impiegato ad Algeri che del libro è protagonista e narratore) lo inchioda ad un destino che non permette vie d’uscita e in cui le cose capitano «per via dell’abitudine». La sua assenza dalla vita, la sua apatica abulia rappresentano la possibile risposta al «meccanismo implacabile» che regola i giorni, lo stesso che conferisce un inimmaginato peso specifico alle azioni e finisce per accelerare il manifestarsi delle conseguenze per chi, lucidamente, sceglie di galleggiare sulla vita. Un romanzo che racchiude un esempio di scrittura limpida, precisa, efficace nel dare forma alla disperazione e all’inquietudine, nel rendere concreta l’ostinazione di Meursault a bussare a tutte le porte dell’infelicità. Eppure anche un libro che trova le parole per dire della tenacia di alcune gioie – «Mi sono sentito assalire dai ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le mie gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il sorriso e i vestiti di Marie» – e di certe sere dell’estate algerina, quando ogni cosa poteva ancora svolgersi in modi infiniti: «Il richiamo degli strilloni nell’aria già distesa, gli ultimi uccelli nei giardini, il grido dei venditori di sandwich, il lamento dei tram sui tornanti della città alta e quel rumore del cielo prima che la notte si rovesci sul porto: tutto ciò ricomponeva per me un itinerario da cieco che mi era ben noto prima di entrare in prigione. Sì, era proprio l’ora in cui, tanto tempo fa, mi sentivo contento. Ad attendermi, all’epoca, era sempre un sonno leggero e senza sogni. E tuttavia qualcosa era cambiato, poiché, con l’attesa dell’indomani, quella che ho ritrovato è stata la mia cella. Come se i percorsi familiari tracciati nei cieli d’estate potessero portare tanto alle prigioni quanto ai sonni innocenti».

 

Diana A. Politano

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