Un modello partecipato e professionale per la sicurezza dei lavoratori – di Ottavio Narracci (esperto di sanità)

I dati statistici riguardanti gli infortuni sul lavoro occorsi nei primi otto mesi del 2019, recentemente pubblicati dall’INAIL, conferiscono a questa realtà la dimensione di una vera e propria strage: più di 700 vittime in 8 mesi, una media di quasi 3 morti al giorno tra vittime dell’attività lavorativa in senso stretto e vittime che si recano o tornano dal lavoro, a fronte di oltre 400mila denunce di infortunio. Un bilancio veramente amaro, che suggerisce ulteriori letture se si considera che la stragrande maggioranza degli infortuni (tra cui quelli mortali) si verificano al Nord, interessano di più il settore industriale  rispetto al comparto agricolo, coinvolgono soprattutto i lavoratori italiani (circa 350 mila) sebbene non sia trascurabile la quota di lavoratori stranieri  (circa 70 mila). Preso atto dell’impegno ribadito dalle massime Autorità del Paese in ogni sede per intensificare il contrasto al rischio infortunistico in ambito lavorativo,  e non poteva essere diversamente, occorre però riflettere sul perché tale fenomeno accenni appena ad una lieve riduzione nella sua dimensione quantitativa, nonostante gli sforzi enormi profusi in tante direzioni, a partire dal nuovo modello di sicurezza derivante dalla applicazione del noto decreto legislativo n. 81 del 2008, cardine normativo della sicurezza sul lavoro, basato sul principio di responsabilità del datore di lavoro. Questa figura può delegare ad altri molte delle  funzioni inerentI la sicurezza previste dalla norma, tranne la nomina del medico che ha il compito di sorvegliare la salute del lavoratore relativamente ai rischi connessi alle mansioni svolte,  e la firma  del documento di valutazione di questi rischi, il che ne presuppone la piena consapevolezza da parte sua. Questo modello sembra poter raggiungere il suo obiettivo più facilmente in una struttura aziendale più complessa e articolata, nella quale il datore di lavoro può (anzi deve) assegnare varie deleghe a personale esperto e può disporre di vari livelli organizzativi per presidiare tutte le funzioni connesse con la sicurezza. Paradossalmente più difficile risulta invece garantire analoghi livelli di sicurezza nella maggior parte delle aziende del Paese, che sono aziende medio-piccole, spesso a conduzione familiare, con una grande componente di lavoratori stagionali (come in agricoltura e nel turismo) o comunque precari. Alcuni gravi episodi di morte sul lavoro verificatisi nel recente passato, peraltro collegati alla patologia dello sfruttamento dovuto alla intermediazione illecita della manodopera, hanno innescato una sacrosanta reazione che ha determinato la convergenza di azioni di controllo da parte di molteplici attori istituzionali, quali Forze dell’Ordine, Ispettorato del lavoro, Azienda Sanitaria territoriale, realizzando nei fatti una modifica del modello di sicurezza, cioè spingendolo dal livello collaborativo più verso il livello del controllo e della repressione. Intendiamoci: controllo e repressione sono ben previsti dalle norme vigenti ma in un quadro generale nel quale l’inadempienza sia l’eccezione e non la regola. E qui apriamo un’altra pagina, ovvero la quantità di adempimenti che la legge pone in capo al datore di lavoro, il quale, specialmente in una azienda medio-piccola deve provvedere a garantire tutti gli adempimenti in materia di sicurezza previsti dalla norma, magari delegando tutto quello che può a dei professionisti che non vivono quotidianamente la realtà dell’azienda e che svolgono legittimamente questa attività per una moltitudine di aziende. Quanto basta per far sorgere il dubbio che gli adempimenti vengano vissuti più come dei meri obblighi burocratici  e non invece come parti di un processo finalizzato a generare comportamenti virtuosi e quindi sicurezza, che è poi l’obiettivo della legge.

Si pone quindi l’esigenza di meglio calibrare la natura del modello di sicurezza da perseguire, a partire da quell’inestimabile patrimonio rappresentato dal decreto legislativo n. 81 del 2008,  valorizzando alcune risorse le cui potenzialità a mio avviso non sono del tutto sfruttate. Sto parlando della dimensione del partenariato socio-istituzionale  e della competenza professionale dei tecnici della prevenzione. Il partenariato socio-istituzionale deve essere visto come un rafforzamento della convergenza già in essere, ma resa ancora più stabile  e fortemente operativa, tra le rappresentanze delle associazioni di categoria e le istituzioni territoriali competenti in materia, ovvero le Direzioni provinciali del lavoro e i Servizi di Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro (SPESAL) delle Aziende sanitarie, sedute insieme in appositi tavoli promossi al più alto livello delle Prefetture, non soltanto come espressione di buona volontà per rispondere a specifiche situazioni di emergenza, ma per affermare e sottoscrivere impegni verificabili tesi al miglioramento effettivo della cultura della sicurezza nelle aziende, e quindi alla adozione di comportamenti virtuosi capaci di promuovere una effettiva prevenzione, a partire dalla conoscenza epidemiologica delle specificità lavorative ed infortunistiche dei singoli territori. Le associazioni di categoria devono essere ancora più incisive nel sollecitare i propri associati  in questa direzione, impegnarsi ulteriormente nella formazione e nella consulenza, per poter trasferire conoscenze e competenze che difficilmente il singolo datore di lavoro potrebbe acquisire autonomanente, specialmente in una azienda di piccola-piccolissima dimensione, pur munito di un suo proprio consulente. Il miglioramento degli standard di sicurezza cammina infatti di pari passo con l’evoluzione tecnologica e l’introduzione di nuovi supporti ai processi di produzione, con la adozione di nuove metodologie operative e, quando necessario, con una nuova organizzazione  del lavoro. In questo senso  appare fondamentale il ruolo professionale del Tecnico della Prevenzione, un professionista sanitario laureato in possesso delle conoscenze necessarie per supportare adeguatamente il datore di lavoro ed i lavoratori in questo percorso di crescita culturale e di cambiamento operativo/organizzativo.  Una figura  professionale impegnata soprattutto nei Dipartimenti di Prevenzione delle aziende sanitarie, laddove assume una precipua funzione ispettiva qualificata come attività di polizia giudiziaria, il che esclude in radice la possibilità che questo professionista possa svolgere una funzione di consulenza se non nei termini di prescrizioni a fronte del rilevamento di inadempienze. Peraltro i Tecnici della prevenzione sono pochi rispetto alla pletora di aziende da controllare e questo rende ancora più difficile raggiungere adeguati livelli di copertura del territorio, per cui si rendono necessari massicci investimenti sul piano assunzionale, spesso però incompatibili con le esigenze assistenziali delle aziende sanitarie. Occorre ripensare dunque alla sfera di attività dei Tecnici della prevenzione, estendendone il ruolo e la presenza dal livello ispettivo garantito per legge, verso un livello, allo stesso modo garantito, di maggiore coinvolgimento all’interno delle aziende, singole o associate, in modo da soddisfare le esigenze di formazione e di consulenza da attuare concretamente sul campo. Uno sforzo in questa direzione va chiesto anche alle Scuole di Medicina, che  dovrebbero  incrementare il numero di posti disponibili per accedere ai corsi di laurea per Tecnici della Prevenzione e, soprattutto, dovrebbero rivedere il curriculo di studi per renderlo più aderente alle esigenze di una prevenzione nelle attività lavorative che si arricchisce velocemente di nuove conoscenze e competenze, opportunità che devono assolutamente entrare nel circuito della formazione  universitaria per diventare patrimonio tecnico-scientifico diffuso utile a formare  Tecnici della prevenzione sempre più esperti conoscitori delle tecnologie del lavoro, per poterne migliorare la qualità e la sicurezza.

 

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