“L’animale morente” di Philip Roth

Nell’arco di oltre cinquant’anni dedicati alla scrittura, Philip Roth (1933-2018) ha disegnato un corso per ogni possibile vita diversa dalla sua e ha altresì definito un’identità precisa e indimenticabile attorno ai nomi dei suoi alter ego Nathan Zuckerman e David Kepesh. Proprio quest’ultimo è la voce narrante e protagonista de L’animale morente (ultimo capitolo della trilogia,  a lui dedicata, che è completata dai romanzi Il seno e Il professore di desiderio), un romanzo, edito da Einaudi del 2002, cui ci si è accostati all’indomani della scomparsa del grande scrittore americano – quasi a volervi trovare strumenti utili a interpretare il più grande mistero del mondo.

David Kepesh, professore universitario di critica letteraria che senza fronzoli si dichiara estremamente sensibile alla bellezza femminile e grato al movimento di liberazione sessuale per avergli consentito di circondarsi della spontaneità disinibita di molte studentesse dei suoi corsi, nel monologo (o forse, piuttosto, una conversazione con sé stesso?) arriva a confidare la sua ossessione malata per Consuela Castillo, la bella studentessa di origini cubane che diverrà un tormento per il suo cuore, rendendolo geloso, violentemente consapevole della sua caducità, incerto e ridicolo al confronto con i giovani uomini di cui la ragazza certo non disdegnerà la frequentazione. Se l’amore fino a quel momento è libertà, passa adesso a legarsi nel classico, ben più che saldo, vincolo con la morte e il dolore (perché sempre l’amore è dominio, potere che si esercita e da cui si è soggiogati – e soprattutto perché è da quelle cose lì che ogni esistenza è attraversata). Le drammatiche rivelazioni finali che sconvolgono l’ordine delle più belle fiabe infantili risultano ancora più tragiche se a farvi da contrappunto sono gli isterici festeggiamenti per l’arrivo di un nuovo anno («Il prossimo bang che sentirete sarà il boom del benessere e l’esplosione delle borse. La minima chiarezza sull’infelicità resa ordinaria dalla nostra èra sedata dallo stimolo grandioso della massima illusione»), mentre sfugge a tutti il senso del passare del tempo («Il Gran Finale, anche se nessuno sa che cosa sta finendo, se sta finendo qualcosa, e nessuno, certamente, sa che cosa sta per cominciare. Una sfrenata celebrazione di nessuno sa che cosa»), con il calcolo dei giorni che sono stati – per i giovani – e il calcolo del futuro che rimane – per chi sia vecchio o malato. «Ma la fine? La fine è – cosa interessante – il primo pezzo di vita da cui ti senti totalmente escluso, pur essendoci dentro»: e ancora una volta l’audace e corrosivo Prof. Kepesh ci ha insegnato qualcosa.

Diana A. Politano

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