Il pubblico applaude convinto uno straordinario Favino che ci racconta quanto siamo carogne

BRINDISI – Nell’adattamento teatrale de “La notte poco prima delle foreste” di Koltes, Pierfrancesco Favino fondamentalmente spiega con straordinaria cruenza al pubblico in platea quanto siamo carogne. Il pubblico del teatro Verdi, a fine spettacolo, ha tributato un lungo applauso all’attore: la speranza è che quell’applauso così convinto fosse davvero intimamente condiviso da ognuno dei presenti, perché l’empatia dimostrata in quella sala, per quel racconto, appare discratica rispetto alle cronache cittadine quotidiane.

Favino si fa interprete delle istanze degli ultimi, degli emarginati, degli stranieri in terra straniera o natia. Anche a casa propria, infatti, si può essere stranieri davanti a un mondo abituato a ragionare per categorie mentali e sociali: ovunque ci sarà sempre una minoranza da far sentire straniera.

E’ questo il grande tema di fondo che Favino “vomita” sul pubblico. Accanto a questo, il protagonista tratteggia una società dove l’apparenza sovrasta la sostanza, dove molti trasformerebbero immediatamente la loro freddezza interiore, la loro morte interiore, in una freddezza materiale, eterna, tant’è che “se si inventasse un modo per morire dolcemente, superando la paura del gesto, ci sarebbe una strage di morti”. Sì, perché l’omologazione ha portato a fingere di vivere. Molto efficace è la metafora utilizzata della pioggia che non bagna questa gente ma gli passa di lato, senza bagnarla. Il protagonista, invece, nel suo racconto è zuppo d’acqua, e si vergogna di farsi vedere in quelle condizioni, mentre i fighetti che inseguono il nemico di turno per sentirsi forti, in realtà sono deboli e non si vergognano di niente. E’ la sublimazione dell’apparenza che vince sulla sostanza. Sostanza che il protagonista sente di incarnare, perché lui è “fatto di muscoli, di ossa, di nervi, di sangue”. Lui è solido nonostante quell’aspetto da disperato, mentre chi ostenta sicurezza e cinismo è il vero debole da compatire e biasimare.

In una società dove prima le carogne erano ai vertici mentre adesso sono scese tra noi, si aggirano attorno a noi, dove tutti sono passati dall’altra parte dello steccato, ovvero quella dell’inumanità, l’unica cosa da fare è creare un sindacato internazionale per difendere quella minoranza di persone ancora umane, ancora fatte di sangue, di nervi e di muscoli.

La speranza, dunque, è che non vi sia bisogno di artifizi per farsi accettare, quale ad esempio quello utilizzato nel racconto, ovvero la luce del lampione che nasconde il colore della pelle del protagonista, quella luce che per un momento gli permette di essere accettato da una comitiva, da una ragazza che vorrebbe passare la notte con lui, almeno finché non si lascia sfuggire la sua intenzione di “andare a caccia di negri”.

Possiamo tutti stenderci sull’erba, alla luce del sole, e dialogare costruttivamente ponendo le basi per un mondo migliore, che si basi sui sentimenti, sui valori, invece che sui colori e sui gusti, che sfociano nel razzismo. O anche solo nel sovranismo.

Andrea Pezzuto

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