BRINDISI – Anche in questa settimana, nonostante il campionato sia fermo, continuano le interviste di Newspam.it, attorno ai colori biancazzurri.

Al termine del girone di andata, in cui l’Enel Basket Brindisi ha staccato per il rotto della cuffia il biglietto per le Final-Eight, abbiamo voluto incontrare il direttore sportivo Tullio Marino. Uno dei più giovani dirigenti in circolazione, Marino jr., figlio proprio del patron Nando, vanta già una carriera non indifferente, costellata da grandi successi, sia al Nord e, soprattutto, nella sua terra, nella sua città, Brindisi. L’impegno che si è accollato un paio d’anni fa non è affatto facile, specie in una realtà come quella brindisina, ma con il lavoro e la sinergia dell’intero staff biancazzurro sta facendo acquisire alla società di contrada Masseriola una mentalità nuova, capace di pensare in grande, proprio come voluto dal presidente nel momento del suo insediamento a capo del club.

Lei ha già lavorato con grossi club, quali l’Olimpia Milano e l’Inter. Come, queste esperienze pregresse, arricchiscono la sua attuale gestione?

“Sono state molto utili, perché sono società molto più grandi di questa. Avevo a che fare con un bacino di sponsor e di pubblico molto ampio. Sono state esperienze complete che oggi mi permettono di lavorare a Brindisi, in un ambiente molto più ristretto, con molta attenzione. Qui il rapporto è differente, perché è la squadra della mia città e devo metterci il triplo dell’attenzione. Sono tornato a Brindisi per fare il mio lavoro e ci tengo a sottolineare questo. Dieci anni fa ho deciso di entrare nel mondo dello sport e sono riuscito a farlo fortunatamente ai massimi livelli. Rientrare nella mia città, per fare ciò che facevo fuori, è qualcosa di stimolante”.

Che differenze ci sono nei criteri di gestione tra i club del Nord e quelli del Sud?

“Il problema dello sport in generale, in Italia, è che è visto come una sicura perdita di denaro, in quanto, alla fine dell’anno, il presidente e i soci devono intervenire per ripianare le perdite. Ciò che vorrei accadesse in Italia, è che le società sportive venissero gestite come società di business, ma purtroppo questo non accade, né al Nord, né al Sud. Magari quelle del Nord hanno qualche soldo in più, ma chi va a coprire, poi, sono sempre i soci”.

Dunque, le differenze di rendimento, nel corso dei decenni, tra le squadre del Sud e quelle del Nord, è dovuto solo alla potenzialità economica di quest’ultime o ad altro?

“Il discorso economico è fondamentale. Chi spende di più, ottiene risultati maggiori. Può succedere, come è capitato con l’Olimpia, col ciclo Armani, che ha iniziato spendendo tanti soldi e raccogliendo poco, perché c’era la Montepaschi Siena di quegli anni che di soldi ne ha messi tanti, creando un ciclo lungo. Ovviamente, ci sono le eccezioni, tipo il Sassari di Sacchetti ed il Leicester di Ranieri (ha vinto lo scudetto l’anno scorso, venendo dalla serie B, ndr); ma, alla lunga, chi ha investito di più, qualche risultato maggiore lo porta a casa”.

Cosa l’ha spinta ad accettare la sfida qui al Sud, oltre al senso di appartenenza a questa città?

“Ho studiato per lavorare nel mondo dello sport. Vi ho dedicato i miei anni di università, ho fatto due tesi di laurea, un master ed ho avuto la fortuna di entrare subito nel settore che avevo scelto. Dopo 3-4 anni in giro, avere la possibilità di venire a misurarmi in casa, a Brindisi, nella città dove sono nato, è fantastico. Quando sono entrato nello sport, la mia famiglia non si occupava di basket: è stato solo un caso. Poi, quando ricevi la telefonata di un padre che ti dà questa possibilità, è difficile dire di no. Venire a dare una mano alla mia famiglia, alla mia società e poter portare a Brindisi quello che avevo imparato negli anni è stato uno stimolo importante per la mia scelta finale”.

Ha nominato suo padre. Il fatto che sia il presidente di questa squadra, condiziona la sua autonomia gestionale?

“Per forza la condiziona, ma non perché sia mio padre, ma perché è il presidente. Qualunque presidente condiziona le scelte fatte in altro modo. Come dicevo prima, vorrei che questa società lavorasse in un’ottica un po’ più di business. I presidenti in Italia, a volte, questa ottica se la dimenticano. Tante volte ho delle idee ‘diverse’ su come approcciarmi su certi aspetti operativi, però, poi, capisco che l’idea dei presidenti possa essere differente e lo comprendo”.

Che rapporto ha con suo padre?

“Sicuramente ottimo. Sia sul piano padre-figlio e sia su quello dirigente-presidente. Parliamo spesso di lavoro, ma siccome questo lavoro si chiama pallacanestro ed è una passione, fa anche piacere farlo. Discutiamo di tutto”.

Nelle sue esperienze manageriali, quali sono stati i suoi fiori all’occhiello?

“Due in particolare. Sia all’Olimpia, che all’Inter mi occupavo del riempimento del palazzetto e dello stadio. La cosa più importante che sono riuscito a fare in Olimpia è stato il progetto ‘Olimpia at school’. Siamo riusciti ad entrare in otto licei di Milano, con giocatori e tecnici, che hanno portato il basket nelle scuole, cosa che mancava totalmente. Questo ci ha portato 10.200 studenti a vedere le partite dell’Olimpia, negli ultimi sei mesi della stagione (quella dello scudetto). Così si è iniziato a fare il sold-out (ben 11): sono entrato in una Olimpia che contava 1.200 abbonati e l’ho lasciata a 3.600. L’altro è all’Inter. Quello che mancava allo stadio erano le famiglie ed i bambini. Il calcio è visto come una chimera, un ambiente pericoloso. Io, prima di andar via, ho creato il ‘Family stand’. Ossia, una tribuna per le famiglie, con prezzi agevolati. Inoltre, arricchiti da attività. C’era un percorso famiglie all’interno dello stadio: una porta dove tirare il rigore, un giocoliere, il body painting ed altre attrattive. Questo progetto ha fatto sold-out nel settore dedicato, per tutta la scorsa stagione. Una cosa che mi lascia felice ed orgoglioso dell’apporto dato”.

Torniamo a Brindisi. La sua iniziativa di diminuire il costo degli abbonamenti del parterre D-L e D-E (una sola fila) ha avuto successo?

“L’idea era quella di portare il prezzo di 420 euro del parterre D-E, quarta fila, uguale al prezzo della tribuna centrale di sopra. Così, anche chi era su, poteva pagare lo stesso prezzo, stando giù. Il progetto è andato bene, ma il palazzetto non ci permette di fare operazioni così rivoluzionarie. Sicuramente, invece, abbiamo fatto un favore agli abbonati della tribuna gialla, riducendo l’abbonamento da 240 euro, a 210. Sull’upgrade abbiamo avuto molto successo. Il concetto era quello di spostare e dare un vantaggio di prezzo a chi avesse deciso di acquistare un abbonamento più caro, liberando dei posti più economici per la vendita libera”.

La sua idea, invece, di aprire uno showroom a Milano ha portato i frutti che si aspettava?

“L’idea nasce dall’amicizia con il titolare del negozio. Durante una chiacchierata, abbiamo pensato di mettere del materiale NBB a Milano, dato che il capoluogo lombardo è pieno di brindisini. Lui mi ha dato la disponibilità nel farlo e nel suo punto vendita c’è un bell’angolo dedicato alla NBB. Una operazione di immagine che sta dando i suoi frutti”.

Avere un camp dell’Enel, al fine di investire gli introiti nel settore giovanile, a che punto è?

“A Natale abbiamo fatto il primo tentativo, con il Christmas Camp. Abbiamo aperto le iscrizioni fino a 28 bambini e le abbiamo chiuse tutte. Siamo riusciti a fare quello che volevamo. Stiamo lavorando su un discorso più ampio che riguarderà l’estate, con camp che prevedono una partecipazione più massiccia. Dovremmo definire il tutto entro marzo. L’idea è fare due tipi di camp: uno in loco, sfruttando delle aree limitrofe al palazzetto, e l’altra idea è di farlo parallelamente all’interno di qualche struttura già esistente in zona brindisina, con la possibilità di alloggio per bambini e genitori. Gli introiti serviranno a far crescere il settore giovanile, troppo spesso bistrattato. In vista delle Final-Eight, invece, qualcosa uscirà fuori, per i nostri tifosi”.

Cosa manca all’Enel per competere con le prime della classe?

“Ci mancano sicuramente i rimbalzi. Per il resto, sono contento di questa squadra. E’ stato fatto il massimo, con il budget a disposizione. Siamo in serie A e non possiamo permetterci di far tirare agli altri 2-3 volte in una azione”.

La circostanza secondo cui molte sconfitte siano maturate all’ultimo momento ed in forza di canestri sbagliati ha influito negativamente sulla psicologia dei giocatori o gli ha dato maggiore consapevolezza delle loro potenzialità?

“Non parlerei di canestri sbagliati, dato che siamo il secondo miglior attacco del campionato. La squadra il canestro lo fa. Poi, nel momento decisivo, può entrare come non entrare, ma è la pallacanestro. I problemi, secondo me, nascono più da una fase difensiva, in cui pecchiamo maggiormente. Soprattutto nei rimbalzi, che ne abbiamo sempre di meno rispetto all’avversario. Sul morale pesa la sconfitta, non il canestro sbagliato. Purtroppo, questo 2017 è partito con due sconfitte amare. Perdere con Venezia, nonostante i 106 punti, che non sono bastati, ci sta. E’ la squadra seconda in campionato ed ha un budget decisamente più alto del nostro. Dispiace molto, invece, la sconfitta di Capo d’Orlando, per aver avuto un approccio morbido, che ci è costato 2 punti vitali”.

Quanto rammarico c’è nel dover affrontare l’Olimpia Milano nella F8, essendoci arrivati per il rotto della cuffia, laddove la si sarebbe potuta tranquillamente conquistare sul campo?

“Non c’è rammarico. Siamo carichissimi. La F8 è, forse, l’unico evento in cui si può sperare di battere Milano, essendo una partita secca: può succedere di tutto. Affrontare Milano ci dà uno stimolo in più”.

Come si descrive Tullio Marino?

“Preferisco che mi descrivano gli altri (sorride, ndr). Me lo dicono in tanti: forse, posso dare l’impressione di essere freddo; chi mi conosce sa, però, che sono una persona umile. Sono un lavoratore e sono entusiasta delle cose che faccio”.

Tommaso Lamarina
Redazione

LASCIA UN COMMENTO