Mascagni e la musica senza tempo di Cavalleria Rusticana in scena a Turi 

La vita è destinata a rinascere ogni giorno, come il sole, che si specchia nel mare prima di abbracciare il mondo con i suoi raggi di speranza. L’Intermezzo della “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni è in grado di suscitare delle immagini straordinarie, superando ogni confine tra dimensione onirica e reale. E’ un respiro di pace e serenità nella vicenda drammatica e violenta che l’opera racconta. Una carezza lieve nella difficile esperienza del quotidiano che ciascuno di noi attraversa. Tre giorni intensi dedicati a Mascagni, nel segno della vita: è il Festival del Belcanto, che si è svolto a Turi (BA) il 3, 4 e 7 agosto scorsi.

Mascagni
A lungo desiderata e promossa dal clarinettista e direttore d’orchestra Ferdinando Redavid, la manifestazione ha accolto diversi nomi illustri della musicologia italiana e profondi conoscitori del compositore livornese, come Cesare OrselliAnnalisa RossiDinko FabrisEraldo MartucciAntonio Galli, e Fiorella Sassanelli, per permettere di cogliere appieno la poetica di Mascagni (1863-1945), toscano di nascita, pugliese “di cuore”. Premiato, nell’ambito del Festival, il soprano tarantino Carmela Apollonio, docente al conservatorio “Nino Rota” di Monopoli. Ma torniamo a Mascagni: fu proprio durante il decennale soggiorno a Cerignola (FG) che il nostro compose l’opera che lo avrebbe portato al successo planetario. E che, paradossalmente, lo avrebbe condannato a restare celebre soltanto per la “Cavalleria Rusticana” (1890), nonostante una produzione prolifica, che si sforza di trasferire in musica le tendenze artistiche e letterarie del tempo. «Rispetto a musicisti come Leoncavallo, Cilea o Giordano, che hanno prodotto opere che sono uscite fuori dal cartellone rapidamente, Mascagni ha scritto opere diverse tra loro e quasi tutte hanno avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico», ha ricordato il professore Cesare Orselli, tra gli ospiti della conferenza di apertura del Festival, il 3 agosto. Nell’originale regia di Luciano Cannito, un coro muto interviene nel prologo, cercando di far desistere Turiddu dall’andare a far visita a Lola, la donna che ama e che, durante la leva militare del giovane, ha sposato Alfio, un contadino arricchitosi facendo il carrettiere.
Il convegno del 3 agosto

In effetti, l’idea del coro, erede, mutatis mutandis, del teatro greco, è molto presente in Mascagni e sostituisce l’ “erlebte rede”, quel “registratore” di piazza che cattura le voci dei passanti. Uno degli strumenti analitici di cui Verga si serve per descrivere la società, partendo dagli strati più bassi. “Cavalleria Rusticana” è una novella tratta da “Vita dei Campi” (1880), che racconta di una contesa amorosa tra due contadini, Turiddu e Alfio, che si conclude nel sangue. E’ stata l’attrice e regista Teresa Ludovico, nella serata del 4, moderata dal simpaticissimo Antonio Stornaiolo, a leggere con impeto alcuni passi della novella, che colpisce – e quasi disturba – per la sua crudezza. Nessun sentimento, pietà ed emozione traspaiono dal racconto verghiano. Solo un enorme distacco dalla società arcaico-rurale della Sicilia, che Verga, ricco latifondista siculo, ben conosceva, legata a un modus vivendi barbaro, volgare e senza futuro.

Il __Prologo__ dell’opera con Ludovico, Orselli, Redavid, Cannito e Stornaiolo

Polemica rinvigorita con la scelta di far interpretare l’atto unico, tratto dalla novella, a Eleonora Duse, protagonista – per intenderci – dei “drammoni” d’annunziani. Il pubblico altoborghese del teatro Carignano di Torino, dove il dramma verghiano fu rappresentato per la prima volta nel 1884, dovette accogliere con disgusto quell’istinto bestiale, che induce a comportamenti inconcepibili per un “semplice” tradimento. Un duello tutt’altro che cavalleresco, che ha l’aria di una rissa da taverna degenerata. I due si scannano con un coltello per un senso dell’onore che non appartiene loro, perché i contadini non conoscono l’onore. Tutto questo non figura nell’opera di Mascagni, che chiaramente, per la sua essenza musicale, è poesia, è sentimento: pensiamo al bellissimo dialogo tra Santuzza e mamma Lucia (Voi lo sapete, o mamma). In scena una splendida Valentina De Pasquale, al suo esordio nei panni della ragazza siciliana, e Alessandra Angela Notarnicola, perfetta nel ruolo sofferto e drammatico della mamma di Turiddu, gna Nunzia nella novella.

Angela Alessandra Notarnicola ed Enrico Terrone Guerra

Appare evidente che Mascagni non possa rispondere ai tre elementi oggettivi del naturalismo francese, al quale il verismo in parte s’ispira: milieu, race, moment. Ma il Verga va oltre, è feroce e conservatore al tempo stesso e dà un’accezione negativa all’ambizione dei suoi personaggi, alla loro “smania di progresso”. La ricchezza e il progresso illudono l’uomo più povero, che finisce per privarsi della propria identità. E’ il caso di Mastro Don Gesualdo, che nella classe nobiliare non incontra che il disprezzo e una morte in solitudine, odiato persino dai suoi servi. E’ il caso dei nostri Alfio, il coreano Gangsoon Kim, baritono dal timbro pastoso e drammatico, assolutamente padrone della scena, e Turiddu, un giovanissimo e dotato Enrico Terrone Guerra. Ricordando “I Malavoglia”, andarsene dal proprio paese alla ricerca di una vita migliore significa tradire l’ideale dell’ostrica, che ti vuole legato per sempre alla tua condizione, significa che quel progresso tanto agognato ti si ritorcerà contro e neanche la “casa del Nespolo”, da cui sei partito, ti riconoscerà più al tuo ritorno. E sarai costretto a partire, solo, mentre il cane ti abbaia contro, il paese lentamente si risveglia e il mare di Sicilia borbotta la solita storia tra i faraglioni. Nella pregevole scenografia di Damiano Pastoressa c’era sicuramente molto di quei paesini siciliani arretrati e, a loro modo, fascinosi, con la chiesetta, dove gli abitanti si recano per assistere alla liturgia pasquale, e un bel balconcino vagamente barocco, come quello da cui dovette affacciarsi Lola – una superba Mariella Zito – per ascoltare la serenata di Turiddu (O Lola, ch’hai di latti la cammisa).

La premiazione di Carmela Apollonio

Giocando abilmente con le prospettive, lo scenografo ha unito la scenografia al campanile della chiesa turese di Maria Santissima Ausiliatrice, nel cui atrio si è svolta la rappresentazione, legando idealmente realtà e finzione. Verrebbe da dire che, nell’opera di Mascagni, il grande assente è proprio Giovanni Verga e che il verismo letterario è ridotto a mero argomento, perdendo la sua funzione analitica. Eppure il verismo è presente negli arrangiamenti orchestrali, che evocano suoni e colori del Sud Italia (non senza qualche accenno vagamente toscano), nel linguaggio sicilianeggiante del libretto, nei costumi, nella passionalità tipicamente meridionale del racconto. Ma la musica va oltre la dimensione temporale: è, sempre, e parla agli uomini di ogni epoca, per il suo spirito universale che, oggi più che mai, dovrebbe unirci. Questo sì, Verga lo avrebbe apprezzato molto. Elemento rimarcato anche dagli ottimi strumenti dell’Orchestra Sinfonica Metropolitana di Bari, che il maestro Redavid ha diretto con dovuta enfasi e cenni precisi. Il regista ha scelto di conferire alla “Cavalleria” un aspetto semplice, che non tradisce la raffinatezza stilistica, impreziosita da movimenti corali ben studiati e organici. L’Alter Chorus di Molfetta ha interpretato con trasporto, tra le altre, l’aria “Inneggiamo, il Signor non è morto”, indubbiamente la più suggestiva di “Cavalleria Rusticana”. Emerge quella spiritualità popolare che Cannito ha voluto evidenziare con la processione del Venerdì Santo, impersonata da alcuni membri di una confraternita turese, che raggiunge il sagrato della chiesa. Un accostamento non in tema con il momento liturgico, che, all’immagine del Christus Patiens, preferisce quella gioiosa del Christus Resurrectus; ma evidente l’intento registico d’instaurare un legame con il territorio e abbattere la naturale barriera tra palcoscenico e platea, tra personaggi e persone. Se Cannito, per sua ammissione, ha ravvisato nell’opera un forte elemento contemporaneo, la presenza femminile (ricordiamo che, nella novella di Verga, Santuzza è poco più di una comparsa), è anche vero che Mascagni non era un femminista avant la lettre e, rappresentare le donne come fragili e sentimentali, di certo non le eleva rispetto ai protagonisti maschili. E veniamo all’Intermezzo, che Mascagni aveva già scritto prima di vincere il concorso indetto dall’editore Sonzogno e che inserirà nella “Cavalleria” – su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci – per incrociare, a suo modo, le idee wagneriane che avevano rinnovato la concezione dell’opera lirica in Europa. Un brano originariamente pensato per pianoforte, quasi mistico, che, nella stessa “Cavalleria”, dà forma alle parole del Regina Coeli e che Mascagni adatterà in seguito facendone un’Ave Maria. A Cerignola, il nostro c’era arrivato per caso con una compagnia di operette e, incoraggiato dal sindaco dell’epoca, aveva deciso di restare, per formare e dirigere una filarmonica locale. Al periodo cerignolano sono legate altre quattro opere: “L’amico Fritz” (1891), “I Rantzau” (1892), “Guglielmo Ratcliff” e “Silvano” (entrambe del 1895). Dal simbolismo di “Iris” (1898) al decadentismo, che incarna il crollo delle certezze positiviste, il disincanto, le «magnifiche sorti e progressive» dell’uomo, per dirla con Terenzio Mamiani, ripreso da Leopardi al verso 51 de “La Ginestra”. La colonna sonora di “Rapsodia satanica” (1917, per la regia di Nino Oxilia), prima a essere firmata da un compositore di professione in Italia, non può non rimandare all’estetismo dannunziano, a quelle velleità che il vate, con le sue imprese e la sua vita dissoluta, alimentava nella borghesia italiana. Una società fortemente in crisi identitaria, che presto finirà per affidare la propria libertà ai sistemi totalitari, in cambio di sogni e illusioni. Di D’Annunzio è, ad esempio, il libretto di “Parisina”, del 1913. Ma se il successo di Pietro Mascagni, nel secondo Dopoguerra, fu penalizzato proprio per la sua adesione al Fascismo e ai registri stilistici in voga durante il Ventennio, il compositore livornese – che scrisse numerose opere teatrali, due sinfonie, molte melodie per canto e pianoforte – affascina per l’immediatezza drammaturgica, l’espansività melodica, la vocalità accesa, la propensione al gesto violento, l’efficace facilità della vena di “Cavalleria”, per la quale combatté con l’editore Sonzogno una battaglia legale che vide vincitore Giovanni Verga. L’idea, piuttosto diffusa, di un Verga arido e taccagno, non deve confondere i critici: oltre l’invidia per il successo della “Cavalleria” di Mascagni, sussiste una chiara frattura tra il pensiero verghiano e la sua traduzione in musica da parte del compositore toscano. Verga non poteva accettare che la sua polemica sociale diventasse una romantica storia d’amore, non era quello il suo intento, tanto più che non si trattava di una comprensibile licenza artistica di Mascagni, ma di un vero e proprio travisamento. Dopo aver vinto la causa, infatti, Verga affidò i diritti a un compositore emergente, Domenico Monleone, perché scrivesse un’altra “Cavalleria”. Questa volta, però, furono Mascagni e Sonzogno a intentare causa contro Verga, uscendone vincitori. E’ grazie ai documenti d’archivio se conosciamo questa storia affascinante. Gli archivi – facendo nostre le parole della dirigente MIBAC Annalisa Rossi, ascoltate nel convegno – sono parte indispensabile della nostra cultura e il digitale, se da un lato ha agevolato la ricerca, dall’altro ci ha privati di quell’aspetto materiale che pure è all’origine della nostra esperienza visiva e delle nostre emozioni. Quelle emozioni che la musica custodisce ed esprime ogni volta che qualcuno la esegue. La musica è capace di togliere e rendere la vita, come Turiddu, che, dopo uno struggente addio alla madre (Mamma, quel vino è generoso), muore per poi rivivere ancora. Perché le persone muoiono, ma i personaggi no, non muoiono mai: il palcoscenico li preserva dal tempo e dalla morte e, per dirla con Pirandello, “E’ un luogo dove si gioca a fare sul serio”. Ci siamo concessi una piacevole conversazione con il professore Cesare Orselli a margine dell’evento e ne abbiamo approfittato per chiedergli come mai la produzione di Mascagni e, in generale, l’opera lirica, dal secondo Dopoguerra attraversino un periodo di crisi. «Il cinema», ci ha risposto sorridendo. Il cinema sonoro, soprattutto il musical americano, secondo Orselli, ha soppiantato l’opera, rubando agli spettatori quella sete di novità. «Ora si va a vedere un’opera come si visitasse un museo. Contrariamente, al cinema, si va per vedere l’ultimo film prodotto». Eppure l’opera è come la cupola del Brunelleschi, i prigioni di Michelangelo, le tele di Caravaggio: ha un valore infinito che nessun’epoca o moda potrà mai cancellare. Ed è sempre bello rivederla, cento, mille volte, perché suggerirà sempre qualcosa di nuovo. I lunghi e scroscianti applausi del pubblico, che hanno suggellato il successo della “Cavalleria” turese, ci portano a credere che la musica possa aiutare l’uomo a combattere per la vita, anche quando tutto sembra perduto. Perché nulla lo è davvero, se accanto a noi abbiamo la musica, una sorella amorevole che ci tiene per mano e non ci lascia mai soli.

Sebastiano Coletta
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