La pittura del ‘600 e l’immortalità delle emozioni

l’interno della chiesa e la mostra

La pittura barocca rivela, più di ogni altra, i sentimenti umani, attraverso le tonalità cromatiche, il sapiente intreccio di luci e di ombre, le espressioni dei visi, la gestualità dei soggetti ritratti, in un turbine di emozioni che stupisce e commuove. L’uomo protagonista della pregevole mostra “L’eredità di Caravaggio in Europa”, allestita nella chiesa di San Sebastiano, a Lecce. Un piccolo scrigno di meraviglia alle spalle dell’ingresso laterale del Duomo, in vico dei Sotterranei, sede della fondazione “Palmieri”. L’esposizione, curata dal collezionista leccese Luciano Treggiari, affermato cultore d’arte moderna, è un percorso emozionale che si snoda essenzialmente tra le opere di autori fiamminghi, francesi e della scuola napoletana, uniti dal grande interesse che Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, aveva suscitato con le straordinarie innovazioni della sua pittura. Tra i dipinti, colpisce il San Sebastiano di un anonimo, che guarda alla tradizione caravaggesca non senza riferimenti allo stile del Carracci. Il santo, bellissimo come da iconografia – pensiamo al dipinto di Antonello da Messina, datato 1478 e conservato a Dresda, o al commovente Perugino del 1493 che si trova all’Hermitage di San Pietroburgo -, è raffigurato mentre una donna, Sant’Irene (da non confondersi con la Irene lupiense, patrona della città fino al 1656), e due angeli lo curano dopo essere stato colpito a morte dalle frecce. Il viso, con gli occhi appena aperti, tradisce la sofferenza del santo, dal corpo efebico, apollineo e decisamente atletico, segno della presenza divina che lo anima.

Anonimo caravaggesco, San Sebastiano curato da Irene e dagli angeli, XVII secolo, olio su tela 149×99, collezione privata
Antonello da Messina, San Sebastiano, 1478, olio su tavola trasportato su tela, 171×85.5, Gemäldegalerie, Dresda
Pietro Perugino, San Sebastiano, 1493-94, olio su tavola, 53.3×39.5, Hermitage, San Pietroburgo

Ben diverso il San Sebastiano del Paolini, che appare vigile mentre le pie donne staccano le frecce conficcate nel braccio e nella gamba destra, i volti illuminati dalla fioca luce di una candela: una tecnica che si avvale di un punto luminoso interno al quadro. Come non pensare al famoso caso del “Candelight Master” (Maestro della Candela), sollevato dallo studioso Benedict Nicolson nel secolo scorso? E’ assai probabile che si tratti del francese Trophime Bigot, del quale la chiesa leccese ospita un’intensa Cattura di Cristo, dove la candela effonde luce nell’oscurità notturna del Getsemani. Tornando a San Sebastiano, incontriamo un altro dipinto, probabilmente di Filippo Vitale: questa volta il santo è da solo, disteso, nell’affrontare la sofferenza, con uno sguardo che sembra implorare Dio perché gli dia la forza di testimoniare la sua fede.

Pietro Paolini, San Sebastiano curato dalle pie donne, XVII secolo, olio su tela, 101.5×135, collezione privata
Trophime Bigot, La cattura di Cristo, XVII secolo, olio su tela, 106×144.5, collezione privata
Filippo Vitale, San Sebastiano, secolo XVII, olio su tela, 73.5×90, collezione privata

Perché Sebastiano era un soggetto così frequentemente dipinto? La risposta è nelle continue pestilenze che affliggevano la popolazione. Da quando, nel 680 d.C., i romani avevano riconosciuto al martire la fine di una violenta epidemia di peste che si era abbattuta in città, il suo culto si era notevolmente accresciuto e numerose chiese gli erano state dedicate. Probabilmente a Lecce, in epoca bizantina, era presente una chiesa dedicata a San Sebastiano, ma è attorno al 1520 che si colloca l’attuale struttura, successivamente affiancata dal convento delle “pentite”. Nonostante le varie trasformazioni subite nei secoli (prima che fosse rilevata dalla fondazione Palmieri e restaurata, era stata utilizzata come officina), la chiesa, dalla sobria e misurata facciata rinascimentale, conserva all’interno alcune tracce artistiche del suo importante passato. Tra queste, alcuni resti di affreschi e un cesellato comunichino in pietra locale, da cui le suore, che osservavano la clausura, ricevevano la comunione. Nel comunichino ritroviamo esposto, per l’occasione, un fine angelo di un nipote del Bernini.

Esterno della chiesa di San Sebastiano, Lecce
Comunichino in pietra leccese con scultura berninesca

Alla scuola napoletana appartiene il Buon Samaritano che, al pathos della scena, il corpo del malcapitato pieno di lividi riverso per terra che sembra bucare la tela, unisce un amore umano senza confini: quello del samaritano che, secondo il racconto evangelico (Lc 10, 25-37), fu l’unico a fermarsi per prestare soccorso all’uomo aggredito da alcuni predoni lungo la strada. Un sentimento che esula dal formalismo religioso: non il sacerdote, non il levita, salvano il malcapitato, ma il samaritano, un uomo apparentemente lontano dalla vera fede. Il pittore, che Treggiari ipotizza essere stato affiancato dal Caravaggio in persona nell’esecuzione dell’opera, lo raffigura avvolto nell’ombra, perché il samaritano opera nel nascondimento, non per mettere in mostra le proprie azioni, ma perché crede nel valore universale della misericordia. Ciò che non conosce il Caino del Vermiglio, che, agitando una clava, percuote con violenza il fratello Abele, reo di essere favorito da Dio, bloccandogli il corpo, con un piede piantato sul torace, e la mano. Uno sfondo sfumato, nel solco dei paesaggi leonardeschi, e un cielo tinto d’arancio e coperto da nubi, fanno da cornice alla scena, tremenda e sublime, dove il tempo sembra essersi fermato per l’eternità.

“Maestro di Fontanarosa”, Buon Samaritano, XVII secolo, olio su tela, 119×178, collezione privata
Giuseppe Vermiglio, Caino e Abele, XVII secolo, olio su tela, 222×148.5, collezione privata

Il naturalismo di Caravaggio è presente in tutte le tele esposte a San Sebastiano, la sua capacità di raffigurare le persone così com’erano realmente. Fondamentale, a questo proposito, la lezione di Leonardo, il primo a studiare “i moti dell’animo”. Ma in Caravaggio non c’è soltanto la riproduzione di ciò che si vede e si sente: traspaiono le sensazioni autentiche, come il dolore del ragazzo che viene morso da un ramarro (tema ripreso dal “Fanciullo morso da un granchio” di Sofonisba Anguissola, realizzato nel 1554, tra tardo rinascimento e manierismo).

Michelangelo Merisi, Ragazzo morso da un ramarro, 1595, olio su tela, 65.8×52.3, Fondazione Longhi, Firenze

 

Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero, 1554 ca., carboncino e matita su carta, 33.3×38.5, Museo di Capodimonte, Napoli

C’è di più: la gioia volubile, la sofferenza di un uomo che, attraverso l’arte, esprimeva la perfezione, l’amore che lui, un animo oltremisura sensibile e dannato, avrebbe tanto voluto raggiungere. La paura della morte è una costante nel Caravaggio e lo porta a identificarsi, per esempio, nella testa di Golia retta da Davide.

Michelangelo Merisi, Davide con la testa di Golia, 1609, olio su tela, 125×100, Galleria Borghese, Roma

Una vita dissoluta, disordinata, dove i sentimenti sfuggono al controllo razionale, in un contrasto straordinario. Mai più nella storia dell’arte si raggiungerà una simile tensione, sede della più profonda energia vitale. Forse era questo che colpiva particolarmente Luciana Palmieri, scomparsa dieci anni fa, a cui si deve il restauro della chiesa di San Sebastiano. «Luciana amava moltissimo Caravaggio e la pittura barocca – ci racconta la sorella Carla – e sarebbe stata felicissima di ospitare nella “sua” chiesa una simile mostra. Luciana aveva la capacità di entrare in un quadro e di immedesimarsi nei suoi personaggi». Una persona così sensibile non poteva non lasciarsi travolgere dall’impeto caravaggesco, dalle sue tele che sembrano animate e raffigurano donne e uomini spesso di bassa provenienza sociale, “vittime di questo mondo”, per dirla con De André.

Michelangelo Merisi, Morte della Vergine, 1604, olio su tela, 369×245, Musée du Louvre, Parigi

La pittura barocca, espressione di un periodo storico affascinante quanto convulso, riunisce i colori del mondo, un caleidoscopio di esperienze che Luciana Palmieri custodiva nel cuore e cercava, con i suoi studi e la sua passione, di divulgare a tutti. Per questo – suggerisce la sorella – sarebbe bello se, in futuro, le fosse intitolata la piazzetta accanto alla chiesa di San Sebastiano. Un segno dell’amore profuso da Luciana nell’arte e nella sua città, Lecce, con un patrimonio culturale che non ha nulla da invidiare alle grandi capitali italiane dell’arte. Luciana ci credeva molto: dovremmo crederci anche noi. In questo momento non facile, le tele di Caravaggio – e dei caravaggeschi – sono un invito a cercare nell’oscurità della vita la luce della speranza, ora accecante, ora flebile, che non abbandona mai nessuno.

Sebastiano Coletta 

 

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