CRISI ENERGETICA: A QUANDO LA SVOLTA GREEN?

Chi vuole analizzare correttamente le cause dell’attuale crisi energetica, non può concentrarsi unicamente sugli effetti della devastante guerra in Ucraina.

Nel 2021, ad esempio, abbiamo assistito ad un vero e proprio blocco forzato di grano e mais, stipati in silos per contenere l’offerta mondiale di queste materie prime e tenere alto il loro prezzo. Nel 2021 il prezzo del gas è passato dai 19 €/MWh di gennaio ai 180 €/MWh di dicembre, ben più dei circa 60 €/MWh attuali.

La verità è che la guerra è stata il detonatore di una miscela esplosiva, alla cui base erano responsabilità di istituzioni ed organizzazioni politiche e le speculazioni di chi controlla il mercato delle materie prime e soprattutto del gas ed oggi fa enormi extraprofitti che non si vogliono fermare.

Addirittura c’è chi addebita la causa della crisi energetica e degli alti costi attuali ad una svolta green, mai realmente avviata nel decennio passato e che avrebbe dovuto produrre 8 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili all’anno e non i miseri 0,8 Gw realizzati all’anno.

La responsabilità della crisi è strettamente legata alla scelta rigida di continuare a puntare sui combustibili fossili, fino al punto che il governo Draghi ha voluto potenziare l’esercizio a carbone di centrali termoelettriche da dismettere entro il 2025 e in cui era in corso la bonifica di gruppi non più attivi, facendo ciò perfino in contrasto con la scelta di ENEL di puntare su poli energetici delle rinnovabili.

Altrettanto sbagliata e rigida è stata la politica riguardante lo sviluppo e la fornitura di gas, sottoponendosi alla dipendenza dalla Russia che forniva all’Italia 29 dei 75 mld di metri cubi di gas consumati all’anno. Volendo il governo discutere soltanto di alternative nella fornitura di gas, poteva avere una certa logica il potenziamento senza trasformazione di stato del gas trasportato dal nord Africa, ma non è affatto giustificabile investire sul ben più costoso GNL e su navi rigassificatrici autorizzate senza procedure di valutazione di impatto ambientale e di valutazione dei rischi di incidente rilevante.

Attualmente non c’è alcuna emergenza anche perché nel trimestre ottobre/dicembre 2022 si è registrata una diminuzione del consumo di gas di 5,6 mld di mc rispetto all’equivalente trimestre del 2021 e ciò, come ha sottolineato il Sole 24 Ore, non un’organizzazione ambientalista, è dovuto sicuramente al surriscaldamento registrato in Italia, ma anche ad una cresciuta penetrazione delle fonti rinnovabili sulla produzione e sui consumi di energia elettrica.

Più volte Legambiente, unitamente ad altre associazioni, ha presentato analisi e proposte articolate e sorprende che ci sia chi evidenzia impatti sul paesaggio di impianti da fonti rinnovabili e chiuda gli occhi rispetto all’impatto ambientale e sanitario e paesaggistico, in quel caso reale, dei combustibili fossili.

Elettricità Futura, articolazione di Confindustria a cui si richiamano società che operano nel settore delle fonti rinnovabili, ha quantificato in 20 GW all’anno per 3 anni, le potenzialità di realizzazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili con un impegno finanziario in gran parte coperte dalle imprese di 85 mld e con ricadute occupazionali di migliaia di posti di lavoro, annullando in due anni la dipendenza dal gas russo, anche in questo caso in modo reale e non fittizio, con il ricorso al  costosissimo GNL.

Continua però a mancare la volontà effettiva del governo e di gran parte delle forze politiche, di investire sulle fonti rinnovabili, ostacolate da procedure burocratiche lunghe e farraginose e da ritardi ed omissioni che investono la responsabilità in primo luogo dello stesso ministero dell’ambiente.

Per chiarire bene il concetto, basti citare il caso dell’area SIN di Brindisi, nella quale la mancata realizzazione di analisi di rischio prescritte dallo stesso ministero nel 2007 e di bonifiche (siamo al di sotto del 10% su tutte le matrici ambientali) blocca l’iter autorizzativo di molti progetti presentati e perfino di quelli che fanno riferimento al PNRR.

Il paradosso è che mentre per le navi rigassificatrici si crea un così discutibile e pericoloso percorso privilegiato, per impianti eolici offshore il ministero impone un giusto e rigoroso, ma contraddittorio rispetto agli impianti di rigassificazione, percorso autorizzativo che tiene conto delle osservazioni di Legambiente sui progetti di Falk Renewables nel basso Adriatico.

Legambiente ritiene che proprio dalla Puglia possa partire una effettiva transizione energetica attraverso la chiusura entro il 2025 della centrale termoelettrica Brindisi Nord, il no a nuove trivellazioni in Adriatico estremamente pericolose e per di più dai tempi lunghi rispetto ad un eventuale messa in esercizio e soprattutto tecnicamente ingiustificabili (fra  le piattaforme esistenti e quelle ipotizzate al massimo l’Italia avrebbe 110 mld di metri cubi in totale estraibili a costi economici ed ambientali elevatissimi, prosciugati in un anno e mezzo in base ai consumi attuali).

Sono stati presentati vari progetti per la realizzazione nel basso Adriatico di parchi eolici offshore. È evidente è inammissibile pensare di concentrare i sei progetti presentati in un’area a sud del porto di Brindisi, ma sicuramente parchi eolici offshore sono possibili a determinate condizioni. Come già detto le osservazioni di Legambiente ed il parere articolato della commissione ministeriale sui progetti della Falck Renewables consentono di imporre criteri di riferimento e procedure analitiche di estremo rigore, per quello che riguarda l’individuazione ed il monitoraggio in aree idonee, per quello che riguarda lo studio di fattibilità fra più siti ed ipotesi progettuali possibili ed infine per quel che riguarda l’espressione di un giudizio di compatibilità ambientale. Va anche detto che la cantieristica connessa alla realizzazione degli impianti non può che avvenire nei porti vicini e, con riferimento ad un eventuale parco eolico a sud di Brindisi, nel porto della città adriatica laddove verrà realizzato lo stabilimento di produzione di pale eoliche e possono essere costruite le turbine oltre che alle torri eoliche degli aereogeneratori, che potrebbero utilizzare acciaio presso uno stabilimento dell’area industriale brindisina.

Lo stabilimento di produzione di pale eoliche dell’Act blade, prevede un investimento iniziale di 27.000.000 € e 162 posti di lavoro espandibili quando l’attività potrà spostarsi nell’area della ZES destinata.

È questo un primo passo di quel percorso da anni prospettato da Legambiente e che Enel ha individuato all’interno di quel polo energetico delle rinnovabili, che può includere un impianto di produzione di pannelli fotovoltaici, di batteria per l’accumulo di energia prodotta e di quelle colonnine che, con colpevole ritardo e in misura inadeguata sono prospettate, ma non prevedendo oggi una dotazione lungo le autostrade.

Legambiente ha proposto un parco fotovoltaico da 300 Mw nel sito di interesse nazionale (SIN) di Brindisi, ai lati dell’asse attrezzato di trasporto del carbone da dismettere, ed un progetto assimilabile a questo può e deve essere realizzato nel SIN di Taranto, tanto più se si vuole dare sostanza di riconversione industriali annunciati.

Vanno ribadito che i gravissimi limiti nell’esecuzione dei piani di caratterizzazione e bonifica dei SIN (meno del 10% di bonifica sulle matrici ambientali) oggi impediscono di portare avanti l’esame tecnico e l’autorizzazione di tanti progetti presentati.

All’investimento sulle fonti rinnovabili, alla conseguente creazione di porti effettivamente green ed alla creazione di aree industriali green è anche legata la concretizzazione dell’articolata proposta di Legambiente di trasformare le ASI esistenti in aree produttive paesaggisticamente ed ecologicamente attrezzate (APPEA, così come definite nel PPTR della Regione Puglia), con evidenti vantaggi ambientali, occupazionali ed economici per imprese oggi fortemente energivore e che pagano pesantemente gli effetti del caro energia. È importante la decisione della Regione Puglia di promuovere con un bando la creazione di Hydrogen valley in aree industriali dismesse o degradate ed appunto nelle aree Sin, purché l’obbiettivo sia quello di non stringere la partecipazione alle grandi imprese che dispongano di terreni liberi (e bonificati?) e purché si parli realmente di idrogeno verde e quindi della creazione di una filiera corta che preveda la fornitura ad utenti direttamente raggiungibili e non l’immissione nella rete Snam che snaturerebbe le caratteristiche stesse dell’idrogeno verde.

Legambiente riconferma le ragioni che hanno portato a sottoscrivere accordi e proposte in passato con Wwf e Greenpeace e da ultimo con lo stesso Wwf e con Fai, ricordando che si deve garantire la chiusura delle centrali termoelettriche a carbone entro il 2025 e l’uscita complessiva dai combustibili fossili, anche attraverso un rewamping o la chiusura di vetusti impianti da fonti rinnovabili esistenti spesso realizzati in assenza di programmazione e di procedure valutative ed autorizzative condivisibili. Impianti eolici onshore e impianti agrivoltaici, per nulla assimilabili ai fotovoltaici esistenti e da creare, ovviamente privilegiando tetti di insediamenti rurali, non possono non far parte di una pianificazione diffusa che garantisca quei 20 Gw all’anno di nuovi impianti e le enormi ricadute occupazionali sopra richiamate.

Legambiente ha lavorato intensamente sia sull’attuazione delle norme e dei regolamenti che danno vita alla costituzione di comunità energetiche sia perché si diffondessero tali comunità che, tanto più per quel che riguarda quelle solidali sono occasione di partecipazione larga e dal basso per la costruzione di un modello energetico non più accentrato ma diffuso e sempre più orientato verso la promozione dell’autoconsumo nelle comunità. Infine, va fatto un riferimento alla proposta di nuova direttiva europea su case green che, soprattutto la presidenza semestrale della UE della Svezia intende portare avanti. Due terzi delle case italiane hanno un forte degrado e costi elevatissimi che le famiglie devono sopportare, tanto più in questo periodo nei consumi di energia elettrica e di gas. È giusto chiedere un programma di finanziamento europeo a sostegno della proposta direttiva su case green, ma alle forze politiche italiane che insorgono contro tale direttiva va ricordato che l’obbiettivo principale, che con il superbonus al 110% e gli ecobonus al 50% per abitazioni civili, era l’efficientamento energetico del patrimonio abitativo italiano e la sua riqualificazione. Una cosa è combattere abusi e reati sicuramente riscontrati, ma è del tutto evidente che un uso virtuoso di fondi pubblici e privati avrebbe garantito e garantirebbe l’abbattimento dei costi energetici attuali, case realmente green e un sostegno alle imprese medio-piccole ed alle filiere oggi in crisi del settore edilizio.

                                                                                                                                    Doretto Marinazzo

                                                                                                                        Responsabile energia Legambiente Puglia

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