Il “Dobbiamo parlare” come incipit della tempesta perfetta, come preludio della catastrofe, come chiave per scoperchiare il vaso di Pandora delle nostre relazioni.

In “Provando… Dobbiamo parlare”, commedia andata in scena ieri sera al Teatro Verdi, tutto avviene in una notte, tutto avviene in una casa un po’ disastrata ma costosissima (“mi vergogno a dirti quanto pago di affitto”) nel centro di Roma. Una coppia di scrittori, Vanni e Linda (Sergio Rubini e Isabella Ragonese) stanno per uscire a cena quando irrompe in casa loro Costanza (Michela Cescon), la migliore amica di Linda, a dire che il marito, il Prof (interpretato da un irresistibile Fabrizio Bentivoglio) la tradisce e lei ne ha le prove. Da qui un susseguirsi di battute brillanti e riflessioni amare, con quattro attori in stato di grazia a rappresentare una specie di lotta sociale (gli scrittori di sinistra contro la coppia di medici di destra), un contrasto antropologico di visioni della vita (il chirurgo stacanovista che opera millecinquecento pazienti in un anno contro lo scrittore che vende una manciata di copie ed è costretto a scrivere fiction scadenti), uno scontro di prospettive sull’amore e sull’amicizia che trascinano lo spettatore in quella casa, a quella notte, in quella serata non programmata tra amici che un po’ si detestano e un po’ si amano alla follia, che si tradiscono, si vendicano, ma si vogliono bene.

Sulla scia degli ultimi esempi (in Francia “Le prénom”, in Italia “Perfetti Sconosciuti”), mettere sul palco o sullo schermo una gruppo di amici in una stanza e lasciarli sfogare funziona. Perché ascoltando i loro sfoghi ci accorgiamo che la voglia che abbiamo noi di sfogarci è tutt’altro che inevitabile: è evitabilissima. Che mettere a nudo quello che siamo ci rende più sinceri, sì, ma ci rende anche più fragili, frangibili e che le cose che rompiamo, i fili che tiriamo troppo, non sempre si aggiustano. È la distruzione il prezzo della sincerità, della verità?

Ascoltando i protagonisti in scena ci si rende conto anche di quante sfumature abbia l’amore. C’è l’amore idealizzato dei due scrittori e c’è l’amore quasi contrattuale della coppia di medici. L’amore fatto di dispetti e di recriminazioni – la casa che è costata trecentomila euro di ristrutturazione, il master da pagare alla figliastra – un po’ materialistico e venale. L’amore fatto di tradimenti, chi con persone vere, chi con il lavoro, ma comunque di cose non dette, di cose nascoste che, però, tenevano insieme i pezzi del puzzle, tenevano insieme la coppia.

La costante è che dire la verità deflagra la coppia. Che, va bene, la sincerità è bellissima ma è come un vestito che sta bene solo su una top model e su una comune mortale è sgradevole e inopportuno. Dall’esplosione si salvano solo i materialisti, quelli che all’inizio sembravano la coppia che funzionava di meno, perché hanno capito che l’amore è un’altra cosa, non è quello cantato nelle canzoni, non è quello raccontato nei film romantici, non è la trasparenza e la sincerità ad ogni costo. L’amore, forse, è non poter fare a meno dell’altro. Solo questo.

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