“Per una democrazia davvero liberale: la rivoluzione neo-liberale Il liberalismo del XXI secolo”

Questo nostro XXI secolo è denso di questioni irrisolte a tutti i livelli – mondiale, europeo, italiano – che conseguentemente graveranno sulle spalle e saranno la sfida delle prossime generazioni. Per dire delle principali:

  • la governance del nuovo ordine mondiale, retta da un multilateralismo eterodiretto e non autentico concerto delle nazioni e dei popoli,
  • lo strapotere nell’economia della finanza e delle multinazionali,
  • la lotta alla povertà (vera) dei diversi sud del mondo (anche nei cosiddetti paesi ‘ricchi’),
  • la difesa del pianeta dai cambiamenti climatici e dal consumo delle risorse,
  • il deficit politico e democratico dell’Europa, che fa della UE un apparato dirigista e non la Casa degli Europei,
  • l’inadeguatezza della costituzione italiana e il superamento del suo modello istituzionale, …

Il nostro Paese, come (le) altre nazioni occidentali, soffre – e s’offre – un modello di democrazia degenerato, una democrazia rappresentativa dove “populismo” si sovrappone a “popolo” e il potere del popolo è solo simbolico, prevaricato dall’occupazione del potere da parte dei politici eletti.

Nell’attuale drammatico scenario sociale economico e politico del Paese Italia, in un grigio panorama sociale permeato da una profonda crisi dei fondamentali valori civili, etici, morali, in un Paese impantanato nella stagnazione e regressione della economia reale, irretito in una asfissiante burocrazia amministrativa, fiscale, bancaria, giudiziaria e sanitaria, la Politica rivela, in tutta la sua drammaticità, la propria incapacità di interpretare le accelerate dinamiche sociali in un panorama ineludibilmente globale, di elaborare un qualunque credibile disegno per il Paese, di opporsi alla inarrestabile decrescita della qualità del pensiero politico.

La crisi dei partiti politici è l’effetto atteso della obsolescenza delle ideologie dei secoli XIX e XX e consolidate nelle immagini sclerotizzate di “Destra” e di “Sinistra”, cui si aggiunge quella di un indefinibile “Centro” – lemmi che hanno perduto il loro significato originario per ridursi a semplici espressioni geometriche -, e, insieme, nell’evoluzione dei soggetti politici/partiti verso formazioni liquide e formule ibride di democrazia diretta e rappresentativa.

Da qui, senza più una stella polare, nasce un caos di posizionamenti politici e di iniziative legislative a casaccio senza un piano; si radica il potere soffocante della burocrazia; dilaga la corruzione e il malaffare; si perde il senso dell’Etica.

L’alternativa è la rivoluzione neo-liberale, che pone al centro l’individuo, la persona, il cittadino, contro l’omologazione della massa e l’esproprio delle libertà individuali: una vera democrazia liberale come democrazia diretta o financo “demarchia”. Gli strumenti sono quelli della partecipazione attiva e collettiva e della resistenza non violenta e libertaria, dalla disobbedienza civile all’obiezione civica, e alla non-omologazione da mainstream, …

Questa “vision” di comunità consapevole ha il pregio di poter essere riconosciuta valida in ogni tempo ed in ogni luogo; prescinde da pregiudizi; induce il senso di equilibrio dei fattori in ogni disegno di funzionamento della Polis, anche nella lotta politica; ha come presupposto la coerenza e l’onestà intellettuale.

Il modello di Stato unitario eredità del XIX secolo e la Costituzione italiana del XX secolo vanno superati con il riconoscimento delle autonomie nel contesto sovrastatale dell’Europa e del diritto all’autodeterminazione dei cittadini. Contro le tentazioni e i tentativi di stato etico, vanno garantiti i principi dello Stato di Diritto, della laicità dello stato – aconfessionale ma non antireligioso – e della buona amministrazione, come pure affermato il primato dell’etica dell’individuo: etica della responsabilità, etica della legalità, etica della eco-sostenibilità.

Un disegno che abbia carattere strategico e che non è da confondere con i programmi operativi ed elettorali, perché esso sta a questi come il disegno di un puzzle sta ai singoli pezzi. L’humus di questo disegno non può che basarsi sui punti di forza del Paese, la sua storica identità, l’essenza stessa delle sue origini e della sua storia, la sua cultura, il suo territorio, le sue esperienze, le sue attitudini, la sua creatività, le sue passioni, il suo presente: per costruire un futuro di una Italia prospera.

Economia e lavoro sono, in ogni comunità civile, fattori strettamente interconnessi. Nel caso della comunità italiana è necessario porre il tessuto produttivo nazionale al centro dell’attenzione politica e nelle condizioni di prosperare, arricchirsi, investire. Basta al capitalismo selvaggio verso un’economia sociale e liberista – che coniuga il valore dell’avere con quello dell’essere -, dove il diritto al lavoro e l’aspirazione alla ricchezza sono valori che devono essere riconosciuti a tutti gli uomini, la proprietà non è un furto ma una risorsa e l’iniziativa privata è il motore dello sviluppo economico.

Questo è il liberalismo in economia del XXI secolo, la cui “mission” è:

“Costruire e proporre un innovativo disegno di crescita economica e sviluppo sociale, fattibile, integrato, sinergico per il futuro del Paese e, soprattutto, trasparente, intellegibile, misurabile”.

Contro le storture del mondo della politica e del mondo – e del nostro Paese – in genere ed il conflitto tra la generazione di quelli che lo reggono e le nuove generazioni che dovranno ereditarlo è necessario rivolgersi ad un idealismo umano, non ideologico, valido in ogni tempo ed in ogni luogo, che trova i suoi fondamenti nella identità, nella libertà, nella centralità dell’individuo, altrimenti definita dignità. La risposta è la nuova democrazia liberale ed il neo-umanesimo del XXI secolo: facciamola questa rivoluzione pacifica e autenticamente liberale!

Perché la libertà dell’uomo resta sempre la prima meta della difesa del mondo.

La Giustizia e l’amministrazione del Diritto sono valori e funzioni imprescindibili in una matura democrazia occidentale, l’Italia nel corso degli ultimi decenni ha visto allontanarsi dal senso comune il senso della Giustizia.

L’amministrazione della giustizia penale, infatti, pone l’Italia agli ultimi posti nella classifica europea, in termini di durata dei processi. La media italiana è di 3 anni e 9 mesi, quella europea circa un anno ma non si tratta soltanto di lentezza della giustizia, anche di iniquità e danno alla persona. Dal 1992 al 31 dicembre 2020, si sono registrati 29.452 casi, con una media di 1.015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa di risarcimento da ingiusta detenzione che supera i 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27.405.915 euro l’anno. In un versante collaterale è necessario fare attenzione anche a come vengono comunicate le misure cautelari in Italia, da parte dei media giornalistici e televisivi. La stampa ha spesso offerto vetrine mediatiche rilevanti a Pubblici Ministeri che ricercavano le luci della ribalta, spesso in danno degli indagati, presentati come criminali e poi risarciti dallo Stato, per le ingiuste misure afflittive loro comminate.

La giustizia civile va anche peggio di quella penale, servono infatti 514 giorni per concludere il primo grado, quasi mille giorni per il secondo e ben 1.442 giorni per il terzo. In totale, dunque, più o meno 8 anni. Un tempo infinito, praticamente incompatibile con la gestione economica e finanziaria aziendale. Un tempo che pone l’Italia ultima nella classifica d’Europa, dove la media è inferiore ai 2 anni.

La giustizia amministrativa va un pò meglio, con una media di 5 anni per i due gradi di giudizio, l’Italia si pone comunque agli ultimi posti in Europa ma la differenza con gli altri paesi è meno imbarazzante.

Il dato comune, purtroppo, tratteggia un ritratto impietoso se si pensa agli investitori stranieri che, nella valutazione delle condizioni esogene di ogni investimento tengono conto di tutti i parametri sopra citati per decidere se destinare gli investimenti al mercato italiano o a quello di altri paesi concorrenti. Non c’è bisogno di spendere altre parole per definire il mercato italiano il meno attrattivo in Europa sotto questo versante.

La Politica nel corso degli ultimi decenni non ha nemmeno imboccato la strada giusta per correggere le storture del sistema italiano. Sull’onda del populismo che ha segnato la XVIII legislatura il Movimento 5 stelle ha imposto l’approvazione di riforme, in campo penale, che addirittura peggiorano l’output della giustizia. Nessun Governo è riuscito a proporre, figuriamoci ad approvare, una riforma del CSM, che metta al riparo l’organo di governo della magistratura dal controllo indiretto delle correnti, le quali sono diventate i “partiti” dei magistrati e influenzano pesantemente le decisioni prese dall’Organo e intervengono per favorire l’assegnazione di incarichi ai suoi componenti, come ha dimostrato il “caso Palamara”.

È attualmente al vaglio un referendum abrogativo che consentirà finalmente di “introdurre” la separazione delle carriere, unico strumento utile a evitare contiguità tra magistrati requirenti e giudicanti. Oggi, i magistrati possono più volte transitare dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa, senza particolari difficoltà. In un moderno Stato di Diritto, liberale e garantista, i magistrati giudicanti e requirenti non possono considerarsi colleghi, altrimenti il principio costituzionale della pari dignità di difesa e accusa rimarrà una chimera irraggiungibile.

Nel campo della Giustizia serve un cambio di passo rivoluzionario, per consentire all’Italia di ripartire, di diventare competitiva a livello internazionale e attrattiva per gli imprenditori che hanno voglia di investire nel Bel Paese. Una svolta di questo genere non può che affermare i principi liberali e garantisti e deve essere capace di essere al medesimo tempo una svolta culturale, che riguarda i cittadini italiani e il loro modo di rapportarsi con la Giustizia e con lo Stato.

Sotto altri aspetti, non è possibile tacere sulle condizioni dello Stato di Diritto conseguenti allo Stato di Emergenza deliberato e prorogato più e più volte per fare fronte alla gestione della pandemia da SARS-CoV-2. Un movimento realmente liberale non può che condannare concettualmente tanto lo “Stato di Emergenza”, quanto le misure restrittive delle libertà introdotte per fare fronte al propagarsi della malattia, quanto infine il quomodo dell’introduzione di queste restrizioni alle libertà personali.

In uno Stato di Diritto gli istituti giuridici non possono essere allargati a tal punto da stravolgerne l’impianto e le previsioni costituzionali. Negli ultimi anni i Governi hanno adottato DPCM e Decreti Legge, che fanno discutere la comunità dei Giuristi ma che soprattutto allarmano i liberali. Non è possibile pensare all’introduzione permanente di uno strumento come la “certificazione verde”, essa si presta ad una illegittima interferenza nella sfera individuale, restringendo le libertà e comprimendo la riservatezza del cittadino. Una politica liberale non può che tendere alla responsabilizzazione del cittadino e non alla sua coercizione. Le forze politiche presenti in Parlamento, che si richiamano ai valori liberali, hanno miserabilmente tradito i valori a cui fanno riferimento. In quest’ambito, nessuna forza politica “liberale” ha fatto sentire una voce critica.

Un’ultima riflessione non può che riguardare il Parlamento e la sua centralità politica. Dopo il referendum costituzionale del settembre 2020, riguardante la riduzione del numero dei parlamentari, le forze politiche non hanno presentato quelle riforme che avevano previsto come essenziali conseguenze della riduzione dei parlamentari. Il risultato è che oggi ci ritroviamo un Parlamento totalmente delegittimato politicamente e marginalizzato istituzionalmente. Il potere esecutivo ha accresciuto le sue prerogative a scapito del Parlamento e tutto ciò a Costituzione invariata.

Noi liberali auspichiamo un nuovo momento costituente, con un’assemblea eletta all’uopo, la quale abbia pieno mandato politico e rappresentativo per aggiornare l’impalcatura istituzionale del Paese. Serve un rilancio della politica rappresentativa, per una nuova affermazione della centralità del Parlamento.

Tullio Galfrè e Andrea Pruiti Ciarello

 

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