MILAN – INTER, STORICO DERBY D’EUROPA

Tra pochi giorni la città di Milano vivrà una settimana di fuoco caratterizzata dalla doppia sfida andata e ritorno da disputare al “Giuseppe Meazza” di San Siro (di Roberto Pichero)

Helenio era un uomo molto esigente e preciso, a tratti maniacale nello studio dei dettagli. Ma anche Nereo non scherzava, seppur lasciasse trasparire della sua immagine un aspetto un po’ più “pane e salame”, magari accompagnato da un bicchiere di buon vino rosso.
Entrambi erano convinti della bontà delle proprie idee, dei propri schemi, delle proprie tattiche. Nell’epoca in cui il calcio italiano iniziava a farsi conoscere in Europa prima e nel mondo poi come “catenaccio e contropiede”, il Mago e il Paròn erano pionieri di uno stile diverso, più aggressivo e propositivo, volto alla ricerca della giocata di classe, tecnica, repentina; d’altronde potendo contare su Mazzola, Jair, Suarez e Corso da una parte, e su Rivera, Pivatelli, Altafini e Mora dall’altra, non potevano non dare lustro ad una manovra offensiva di rilievo, seppur sfruttando le notevoli doti difensive con i vari Picchi e Facchetti per i “Bauscià”, Trapattoni e Cesare Maldini per i “Casciavìt”.
Sia Helenio che Nereo erano stati ammaliati dalle folate di Alfredo Di Stefano e compagni, capaci di trionfare nelle prime cinque edizioni della neonata Coppa dei Campioni (all’epoca ancora la coppa “dalle piccole orecchie”) e dalla spregiudicatezza della fortissima ma altrettanto sfortunata Nazionale ungherese, guidata dal talento di Ferenc Puskas, capace di insegnare calcio in Europa anche più di quanto non avessero fatto i maestri inglesi, prima di abdicare ad un passo dal trionfo mondiale nella finale di Berna del 1954 contro la Germania Ovest.

C’era voglia di Europa negli anni Sessanta. C’era voglia di rinascita, di benessere, di relazioni sociali, di vita. Le due Guerre Mondiali volevano essere solo un brutto e lontano ricordo vissuto dai padri e dai nonni. La società era vogliosa di rinascere, di integrarsi, di confrontarsi, così il 25 marzo del 1957 nacque la Comunità Economica Europea, preludio dell’Unione Europea. Mentre già da due stagioni si disputava appunto la Coppa dei Campioni, competizione che metteva di fronte le squadre più forti d’Europa, ovvero le vincitrici del proprio campionato nazionale della stagione precedente.
La storia ci insegna che dopo le prime cinque vittorie del Real Madrid e le due dei portoghesi del Benfica, dal 1963 al 1965 l’albo d’oro fu colorato d’azzurro; o meglio, di Rosso-Nero-Azzurro. Il calcio italiano aveva fatto irruzione sul trono d’Europa grazie alle due superpotenze della città di Milano, per merito delle idee innovative di Helenio Herrera e Nereo Rocco. Ancora oggi Milano è l’unica città a poter vantare due squadre capaci di laurearsi campioni d’Europa, con buona pace di Londra, Madrid, Manchester (per ora) e Lisbona.

Tra pochi giorni la città di Milano vivrà una settimana di fuoco, caratterizzata dalla fibrillazione tipica che sa concedere solo l’attesa del derby milanese e allo stesso tempo europeo, nella versione doppia sfida andata e ritorno, da disputare ovviamente sempre e solo nella Scala del calcio, l’eterno “Giuseppe Meazza” in San Siro.
Il derby europeo di coppa è un evento molto raro, eppure l’almanacco recita già due precedenti, non troppo lontani; tuttavia i ricordi di quelle sfide epiche sono abbastanza maturi da aver già compiuto la maggiore età.

Nel 2003, così come quest’anno, la doppia sfida valeva l’accesso alla finalissima di Manchester. Sia l’Inter di Héctor Cuper che il Milan di Carlo Ancelotti erano piene di talenti in attacco (Vieri, Recoba, Crespo, Kallon per i nerazzurri, Inzaghi, Shevchenko, Tomasson, Rivaldo per i rossoneri, solo per citarne alcuni), eppure il match d’andata in casa del Milan non sarà certo passato alla storia come la partita del secolo. Due squadre bloccate tatticamente, intimorite di poter subire il gol che avrebbe potuto far pendere l’ago della bilancia dalla parte opposta in maniera decisiva. Così il tabellone di San Siro non poteva non recitare 0-0 alla fine di quei bloccati 90 minuti.
Tutto rimandato a sei giorni dopo. Quando ci pensò l’ucraino Andriy Shevchenko, il Re dell’Est per i tifosi rossoneri, a trovare la giocata giusta per superare Cannavaro e Cordoba, e battere Toldo in uscita disperata. In realtà la prodezza di Sheva fu pareggiata nel finale dal giovanissimo e velocissimo nigeriano Martins, capace di bruciare nientemeno che Paolo Maldini; ma vent’anni fa esisteva la regola dei gol in trasferta: in caso di parità nella somma dei gol totali, veniva premiata la squadra che avesse realizzato il maggior numero di gol fuori casa. Curioso che a giovarne fu appunto il Milan con la rete di Shevchenko, da regolamento fuori casa, ma che comunque fu segnata ovviamente sempre a San Siro. Quel passaggio del turno contro i cugini nerazzurri fu un tassello fondamentale che portò il Milan di Carlo Ancelotti a trionfare poi nella finale tutta italiana contro la Juventus e ad aprire un ciclo vincente, iniziato con la coppa (nel frattempo evolutasi in quella “dalle grandi orecchie” e rinominata Champions League) sollevata dal capitano Paolo, esattamente 40 anni dopo suo padre Cesare, sempre nel cielo d’Inghilterra.

Nel 2005 le due squadre si affrontarono ai quarti di finale. I blocchi erano simili a quelli di due anni prima, con le piccole differenze che nell’Inter, rinforzata tra gli altri dall’indimenticabile Sinisa Mihajlovic (nel 2015-16 avrebbe allenato anche i rossoneri) si era ormai affermato l’Imperatore Adriano, brasiliano talentuosissimo in campo quanto scellerato fuori, mentre Hernan Crespo aveva attraversato il Naviglio approdando sulla sponda rossonera e il Milan si era rinforzato anche con Cafu, Stam e sopratutto il futuro Pallone d’oro Kakà. A sbloccare il match di andata (sempre in casa del Milan) ci pensò proprio Jaap Stam con uno stacco imperioso su calcio piazzato di Andrea Pirlo. E nel secondo tempo, sempre su un pallone invitante del Maestro di Brescia, ci pensò ancora una volta Shevchenko ad affermare la propria ispirazione prolifica nei derby; 2-0 e arrivederci tra una settimana in casa dell’Inter. Dove sempre il solito Sheva, già nel primo tempo, con un bolide mancino da fuori area sancì la supremazia del Milan, che prima però aveva dovuto fare affidamento al miglior Dida per respingere gli assalti di capitan Zanetti e compagni. A quel punto all’Inter sarebbero serviti ben quattro gol per la rimonta, ma la partita recita il risultato di 3-0 a tavolino per il Milan, in seguito alle intemperanze della curva nerazzurra, dalla quale numerosi fumogeni furono lanciati in campo, uno dei quali colpì proprio il malcapitato portiere rossonero. Il Milan poi si spinse fino alla finale di Istanbul, dove subì dal Liverpool la rimonta più pazza della storia del calcio (da 3-0 a 3-3 in soli 6 minuti, prima di soccombere ai calci di rigore). Tornando al derby di ritorno interrotto, epica fu l’immagine di Rui Costa e Materazzi, acerrimi rivali in campo, ma quasi abbracciati e poggiati uno sulla spalla dell’altro, a guardare attoniti ed inermi ciò che accadeva sugli spalti in quel momento, quasi a voler dire tramite il linguaggio del proprio corpo “Ma cosa state facendo? Fermi! È solo una partita di calcio!”

Ma il derby di Milano non è mai una semplice partita di calcio.
È una storia infinita tra classe operaia ed aristocrazia.
È una lotta continua tra due mondi: tra il club rossonero fondato nel 1899 con un nome inglese dagli inglesi Herbert Kilpin e soci, che dopo qualche anno fu appannaggio della politica che voleva dare spazio solo ai calciatori italiani, e la squadra fondata nel 1908 da una costola della prima, proprio per consentire agli stranieri di poter praticare il calcio a Milano, con un’ottica più internazionale (da cui, appunto, il nome del club nerazzurro).
È una sfida tra due squadre che negli anni Trenta e Quaranta hanno visto il proprio nome cambiare in Milano e Ambrosiana, ma perlomeno non hanno mai perso i propri colori sociali e la propria identità.
Negli ultimi tempi è stata spesso la sfida tra il Milan dei brasiliani e l’Inter degli argentini, andando così a creare una sorta di derby sudamericano all’interno del derby milanese.

Oggi, il derby di Milano e derby d’Europa, è la sfida tra il blocco francese dei rossoneri (Maignan, Theo Hernandez e Giroud) e il mix argentino – balcanico dei nerazzurri (con i vari Lautaro, Correa, Brozovic e Dzeko).
È la sfida italiana di Calabria e Tonali contro Barella, Dimarco e Bastoni.
È soprattutto la sfida tra Stefano Pioli e Simone Inzaghi, entrambi a caccia della loro prima finale di Champions League.
Attraversando il tunnel di San Siro, sicuramente penseranno che il lungo viaggio che li ha portati fin lì, su quel prato verde pronto ad essere teatro di una nuova epica battaglia stracittadina, vuole poter fare un’ultima fermata, nuovamente ad Istanbul, dove la nostra cara Europa tocca il confine con la porta d’Oriente, ed una tra Milan e Inter avrà spostato il proprio limite oltre il confine dell’immaginazione.
Appena prima del fischio d’inizio Stefano e Simone si avvicineranno al centro del campo, si guarderanno fieri e sicuri di sé, ma anche un po’ timorosi dell’avversario e si stringeranno la mano. Non sapremo esattamente cosa si diranno, poiché nonostante le numerose telecamere in campo riescano a riprendere ormai di tutto e di più, spesso ci pensa l’altra mano davanti alla bocca a coprire il labiale per conservare un momento di sacralità, di privacy, di sportiva intimità. Ma siamo sicuri che in quell’attimo di pace e di amicizia prima della tempesta calcistica che si scatenerà in campo, entrambi non potranno non pensare al mitico saluto da gentiluomini navigati che si rivolgevano i signori Helenio e Nereo.

“Che vinca il migliore” diceva il Mago.
“Sperém de no” rispondeva il Paròn.

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