BRINDISI – Il campo non mente mai. Quella fame lì ce l’hanno in pochi: solo chi ha visto com’è fatto l’inferno e fugge via a perdifiato finché non arriva il più vicino possibile al paradiso.
John Brown III fenomeno non lo è diventato a Brindisi ma lo era già da ragazzino, solo che in pochi potevano saperlo. La stabilità, da piccolo, non sapeva neppure cosa fosse: tre licei cambiati, una vita da nomade in giro da una casa popolare all’altra, l’assenza di un padre, la perdita del lavoro della madre durante il secondo anno di liceo, una casa composta da una sola stanza da dividere con la madre e la nonna. E una squadra di ragazzini squattrinati, che giocavano ognuno con un pantaloncino di un colore diverso.
Sono due le tappe che hanno deviato il suo percorso che lo stava portando diritto all’inferno, seguendo un dirupo costellato da amicizie sbagliate.
La prima riguarda l’incontro – nell’ultimo anno del liceo – con l’assistant coach di High Point University, che per caso si imbattè in una gara dell’improbabile squadra di Jacksonville, Florida, nella quale giocava un ragazzino smunto che non passò inosservato agli occhi esperti del coach. “C’era un ragazzino che correva da una parte all’altra del campo come un forsennato e a un certo punto ho pensato gli potesse venire un attacco di cuore; non potrò mai dimenticare quel giorno”, ha raccontato Balado.
Il secondo avvenimento, sempre riconducibile a quegli anni del liceo, inerisce la nascita del suo fratellino Ja’Ron, quando John aveva già 17 anni. La madre, dopo la perdita del lavoro, era entrata in depressione, così è toccato a John prendersi cura del suo fratellino – mentre la madre cercava di arrangiarsi come poteva -, diventando per lui un padre a tutti gli effetti. Fu in quel momento che John, a seguito di una rissa nella quale fu coinvolto e portato via dalla polizia senza che avesse fatto nulla, capì che era il caso di fare pulizia nelle sua vita. Certo, le condizioni di vita continuavano ad essere estremamente difficili: adesso in quella stanza erano in quattro, la fame alcune notti lo divorava, i calzini da indossare per andare a scuola erano sempre gli stessi, non avendo una lavatrice e un’asciugatrice e non avendo i soldi per i gettoni della lavanderia.
Balado e Cherry, l’head coach di High Point Unversity, pensavano che Brown fosse troppo forte per giocare nella loro università, ma la voglia di John di rimanere vicino alla madre, alla nonna e al fratellino e i suoi voti negativi a scuola, resero l’operazione possibile. Coach Cherry andò così a trovare John nel suo appartamento. Prima che ciò avvenisse, pensate che John dovette avvisare le altre persone del complesso che sarebbero arrivati due uomini in giacca e cravatta e una bella macchina. Coach Cherry cercò di indirizzare John verso la strada giusta, ma il primo anno al college lo passò giocando a lacrosse, in quanto non era a posto con il programma di studi per giocare a basket.
La vita lì iniziò a sembrargli bella: aveva la possibilità di vedere spesso i suoi affetti ed il suo fratellino, veniva rispettato da tutti, studiava e si allenava duro. La vita di John, però, non è mai stata facile. Nel suo anno da matricola gli morì la nonna. Nel suo anno da Junior, invece, poco prima di Natale ricevette una chiamata da suo padre, con il quale intanto aveva ricucito i rapporti: sua madre era malata. Pochi giorni dopo morì. E qui c’è da raccontare un altro aneddoto che fotografa perfettamente che razza di persona gioca per i nostri colori. John volò al funerale, poi, tre giorni dopo, tornò per la partita di High Point contro James Madison. Arrivò due ore prima della palla a due, segnò 24 punti, catturò 12 rimbalzi e al suono della sirena crollò letteralmente a livello emotivo.
Da quel momento Ja’Ron ha vissuto con il padre e John, ogni giorno che passa, ha ben fisso in mente qual è il suo obiettivo: “Essere in grado di dare a mio fratello una vita stabile, quella che io non ho potuto avere”.
All’High Point University, John Brown è ricordato come un idolo, avendo chiuso il suo anno da senior a oltre 19 punti, 7 rimbalzi e quasi 2 stoppate di media.
Adesso in Italia è diventato Giovanni Marrone: un nome che ha marchiato col fuoco in ogni piazza che ha giocato e che a Brindisi non dimenticheranno facilmente quando spiccherà il volo verso vette sempre più alte, perché uno come lui è predestinato a toccare il paradiso con un dito dopo aver sentito ardere il fuoco dell’inferno.
Giovanni, è vero che l’Happy Casa ti voleva già l’anno scorso?
“Ci fu qualche contatto ma come è normale che sia in estate quando le squadre fanno il mercato e cercano le migliori soluzioni possibili. Sono contento di essere qui adesso”.
Segni dai 5 metri ma non dai 6,75 metri. Se avessi tiro da tre, saresti un #4 completo, con i fiocchi. Che difficoltà trovi a segnare due metri più indietro? Ti stai allenando duro per aggiungere questo fondamentale al tuo repertorio?
“Me lo dicono spesso e me l’hanno fatto notare i coach del nostro staff tecnico. Ogni giorno cerco di migliorare il mio gioco, partendo dai piccoli dettagli che sono quelli che fanno la differenza. E’ qualcosa su cui posso e devo lavorarci su, in accordo con coach e assistenti. Mi fido di loro e della loro capacità di tirare fuori il meglio da ognuno di noi”.
Perché metti gli occhiali? Dicono che ti abbiano portato fortuna una volta e da allora non li togli più…
“Ho rischiato più volte in questa prima parte di stagione un KO tecnico ma mi trovo bene e ormai fanno parte del mio modo di essere John Brown”.
Tuo fratello Ja’Ron ha 9 anni: ti manca? Ti viene a trovare? Vede le tue partite in streaming? In un’intervista hai detto che tutto quello che fai lo fai per dargli stabilità…
“Ci sentiamo sempre durante il giorno ed essendo così piccolo, ancora non viaggia per voli così lunghi e faticosi. Appena possibile, comunque, facciamo videochiamate e conference call. Non è facilissimo seguire le nostre partite in America, sia per gli orari che per la visibilità ma tutti gli highlights e le giocate non gli mancano di certo”.
Povertà, una casa piccola, un quartiere malfamato, amicizie sbagliate, l’intervento della polizia che ti ha portato via dopo una rissa in cui tu non c’entravi, tre licei cambiati, risultati scolastici che non ti hanno permesso di giocare a basket il primo anno a High Point e di ricevere chiamate da college più importanti. Quanto era difficile la tua vita in quegli anni? Cosa è cambiato poi? Quale molla ti è scattata? E’ stata la nascita di tuo fratello a spingerti a fare meglio?
“Difficile a dirlo e spiegarlo. Il perché o il come mai… Alla fine la vita è fatta di bivi e devi scegliere da che parte andare, sebbene in quel momento vedi tutto nero. Per fortuna grazie a Dio e alla mia famiglia la mia direzione è stata quella giusta nonostante un’infanzia non propriamente così facile. Non rinnego nulla, anzi, dagli errori si impara e dal fondo si riparte e si risale. La nascita di mio fratello è stata sicuramente un dono per me e per tutti noi”.
Balado, il tuo assistant coach a High Point, ha detto che la prima volta che ti ha visto giocare al Liceo, giocavi in una squadra in cui ognuno aveva un pantaloncino di colore diverso e credeva ti potesse venire un attacco di cuore per quanto correvi forte. Metti tutto te stesso nel basket, tutto il cuore, hai una fame fuori dal normale: è un modo per scaricare quello che hai dentro o è la fame di migliorare e di riprenderti quello che non hai avuto con gli interessi che ti spinge a giocare con quel fuoco, con quella passione?
“Senza sacrifici non vai da nessuna parte, e questo vale in ogni ambito della vita. Metto tutto me stesso sul parquet e in allenamento nel lavoro quotidiano. Cuore, cervello e gambe, senza lasciare nulla al caso. Ho la fortuna di lavorare con un team di professionisti e ogni giorno bisogna apprendere qualcosa in più da tenere con sé. Ogni giorno è un’opportunità che la vita ti dona e spetta a te sfruttarla fino in fondo. Io sono pronto a farlo e per questo non mi fermo e non mi fermerò”.
Il primo anno a High Point giocasti a Lacrosse e non a basket. Però fu l’occasione per allenarti duro ed eri contento perché eri vicino ai tuoi familiari. E’ così?
“Sì, esattamente. In quegli anni la priorità non poteva essere lo sport e il divertimento ma la famiglia e la vicinanza. Il lacrosse fu una buona opportunità che coniugava entrambe le situazioni e l’ho presa al volo. Poi la vita mi ha portato su altre strade”.
Alla fine hai fatto la storia del college di High Point. Che ricordi hai di quegli anni?
“Ricordi indelebili, che mi porto sempre dentro di me. Bisogna sempre ricordarsi da dove proveniamo, i sacrifici che abbiamo fatto noi stessi e la propria famiglia così da non perdere mai i propri obiettivi e traguardi. Mai lasciarsi prendere dalla frenesia e dalla voglia di andare oltre. La mia storia vive dentro di me ogni giorno”.
Aiuti i ragazzi del tuo vecchio quartiere di Jacksonville quando torni in America?
“Lavorando qui in Europa per diversi mesi durante l’anno mi è più difficile tornare frequentemente a casa, ma ogni volta che posso, in estate non vedo l’ora di farlo. Mi piace più agire che dare a vedere”.
Com’è la tua vita in Italia? Brindisi può essere il trampolino per prenderti quello che ti spetta?
“Amo la mia vita in Italia e sto benissimo sotto tutti i punti di vista. All’inizio, appena arrivato dagli USA, avevo qualche timore per lo stile di vita ma devo dire che sia a Roma che a Treviso che a Brindisi non ho avuto alcun problema, anzi mi sono trovato molto a mio agio. Qui il clima poi è gradevole durante tutto l’anno, abbiamo visto anche la neve! Non penso troppo al domani, mi godo e mi concentro sul presente e su ciò che posso controllare attraverso la mia determinazione e il mio impegno”.
Che rapporto hai con coach Vitucci?
“Splendido! E’ molto bravo a gestire la pressione, darci indicazioni e spingere sull’acceleratore quando è il momento giusto. Altrettanto super sono coach Morea e Lezzi, che si impegnano ogni giorno in allenamento a guidarci passo dopo passo in quello che facciamo e sbagliamo. E’ un lavoro di team in tutto e per tutto”.
Quello di quest’anno è il miglior gruppo con cui hai mai giocato? Dove potete arrivare?
“Indubbiamente. Sin dal primo giorno ho conosciuto tanti ragazzi bravi e divertenti, con tanta voglia di lavorare e crescere singolarmente e collettivamente. Siamo un bellissimo gruppo che si diverte giocando, e questo è fondamentale. Giochiamo a pallacanestro e con le nostre gesta facciamo felici migliaia di tifosi. E’ sport ed è vita, dobbiamo ricordarcelo ogni giorno!”.
Andrea Pezzuto
*Si ringrazia per la traduzione e collaborazione Stefano Rossi Rinaldi