Giusy Frallonardo: “Recitare è essenza dell’umanità”. L’attrice pugliese protagonista del film tv Rai “La luce nella masseria”

L'attrice pugliese Giusy Frallonardo

Tutti gli attori recitano, ma solo quelli veri, nel farlo, trasmettono un’energia potente, sublime, mai priva di emozioni. E’ un’attrice navigata e sensibile, Giusy Frallonardo, tra gli interpreti de “La luce nella masseria”, diretto da Riccardo Donna e Tiziana Aristarco, che andrà in onda stasera, alle 21:30, su Rai 1 per celebrare i 70 anni dall’inizio del servizio pubblico, il 3 gennaio del 1954. Accanto a lei Aurora Ruffino, Domenico Diele e Renato Carpentieri. Ambientato nella Matera del ’62, il film immagina l’arrivo della televisione in una casa del Sud Italia. Un’epoca molto diversa dalla nostra, fatta di tanta miseria, ma, forse, più autentica. Pensiamo ai nostri genitori che raccontano quanto, nei primi anni ’60, il televisore fosse tutt’altro che scontato: d’estate capitava che i bambini di un quartiere si riunissero nell’unica casa che godeva di questa fortuna per seguire le trasmissioni dedicate ai più piccoli. Se Carlo Levi, nel “Cristo si è fermato a Eboli”, descriveva i Sassi di Matera come condizione bestiale, Pasolini, nel ’64, scelse provocatoriamente di ambientare proprio lì “Il Vangelo Secondo Matteo”: la Matera di oggi, affermata meta turistica, conserva i segni di un passato tremendo che non può lasciare indifferenti, neanche dietro uno schermo. Incontriamo Giusy Frallonardo nella sua Castellana Grotte (Bari), in una ventosa mattina d’inizio gennaio. Ci accoglie subito con un dolcissimo sorriso. I profondi occhi castani comunicano gentilezza, sentimenti sinceri e personalità, al tempo stesso hanno la capacità, essenziale per chi fa l’attore, di attrarre magneticamente. Brillante allieva di Vittorio Gassman alla “Bottega teatrale” di Firenze, Frallonardo è da anni impegnata a teatro, in tv e su numerosi set cinematografici, a conferma di un talento corroborato dallo studio della tecnica e delle discipline umanistiche. Una donna dal carisma evidente, essenza di un animo meridionale verace, che la lega al personaggio di Damianina ne “La luce nella masseria”.

«Damianina è la figlia maggiore della famiglia contadina dei Rondinone» racconta. «Avendo perso la madre, è lei a occuparsi della casa. E’ sposata con due figli: una ragazza che sta concludendo il liceo – e che lei vorrebbe mandare all’università – e un fratellino che sta per ottenere la licenza elementare. Il marito non è con lei, perché emigrato in Belgio per lavorare in miniera. Damianina è una tipica donna del Sud, vocata al sacrificio e alla maternità intesa come occuparsi della famiglia, sua e d’origine. Vive nei Sassi, l’architettura della vergogna, e soffre molto delle crisi che turbano la quiete della famiglia».

Questo sconvolgimento della famiglia di cui parla è espressione di un’evoluzione della società?

«Sì, perché si passa da una società contadina immobile e un po’ naïf alla società dello “show business”. La televisione, all’inizio, è sembrata il nuovo focolare che ha fatto diventare famiglia tutta l’Italia, perché ha portato modelli uguali dovunque ed è stata una vera rivoluzione».

Diciamo che ha contribuito all’unità linguistica del Paese.  

«Assolutamente, infatti nel film parliamo in dialetto materano. Ma, poi, la televisione ha portato all’identificazione con alcuni modelli d’immagine e non solo quelli ispirati dalla radio fino ad allora. La preponderanza dell’immagine ha portato alla società dell’immagine, cambiando radicalmente l’essenza di questo Paese, che era profondamente diseguale: nel ’62, a Milano si era in pieno boom economico, a Matera si viveva nei sassi e si era convinti che fare l’operaio fosse un’evoluzione rispetto all’essere contadini. La fabbrica, il mattone, rappresentavano la modernità».

Anche se, forse, il passaggio da contadino a operaio significava anche barattare la propria identità col progresso. Sopravvive ancora qualche traccia di quell’Italia? «Diciamo che l’Italia rappresentata nel film non esiste più e i ragazzi di oggi non riescono e non possono immaginarla, perché vivono in una realtà urbana decisamente più violenta. Tant’è che, quanto ci restituiscono le serie televisive, è un mondo assai crudele e competitivo. Anche nella società patriarcale c’erano degli aspetti di violenza…».

Ricordiamo la violenza contadina messa in scena da Verga nella “Cavalleria Rusticana”, da cui Mascagni trasse l’omonima opera lirica.  

«Così come nell’autorevolezza del “pater familias” c’era della violenza, ma, nella famiglia del film, la forza morale di “tatè” – che in materano significa “papà” – era sicuramente un valore forte. Che non c’è più, perché è disgregato il nucleo familiare. Non esiste più la famiglia che si riunisce a tavola e segue le direttive di qualcuno. Non voglio dire che sia un mondo migliore o peggiore di questo, ma è diverso».

A proposito, ritiene che la violenza sulle donne di cui, purtroppo, sentiamo spesso parlare ultimamente, dipenda da un modello “patriarcale” di società oppure, paradossalmente, dalla sua crisi? 

«E’ il frutto di un’immaturità sociale, soprattutto, della figura maschile. Per millenni l’uomo è stato preponderante. In realtà, adesso, non essendoci un fondamento biologico se non la forza muscolare, il problema è culturale: quella società machista si vede messa in crisi da un ruolo femminile che sta cambiando. Nella fiction è evidente: c’è una ragazza calabrese che viene a vivere a Matera da sola, prende la patente e guida l’auto. Ma la stessa Damianina, il mio personaggio, porta avanti la famiglia da sola e si occupa dell’educazione dei figli, infatti il padre le lascia una quota di eredità uguale a quella dei fratelli, scelta che suscita scandalo. Nella nostra società importante è la cultura per modificare il concetto patriarcale degenerato e trovare un equilibrio, considerandosi non più “maschi” e “femmine”, ma esseri umani».

Giusy Frallonardo nel ruolo di Damianina in “La luce nella Masseria”, in onda su Rai 1

Com’è cambiato il ruolo della televisione?

«La televisione ha sicuramente perso la sua centralità. L’avvento della tv commerciale ha cambiato i paradigmi, perché non è più servizio pubblico ed educativo – obiettivo che la Rai e poche altre trasmittenti riescono ancora, in parte, a conservare – ma mero intrattenimento. Il basso livello si sclerotizza con il pettegolezzo, il voyerismo, lo spiare dal buco della serratura, la lite per attirare audience. Dopodiché l’immissione dei social nelle nostre vite ha reso questa “piazza” non più nazionale, ma globale, ampliando le possibilità di sfociare nella volgarità. Una cosa che ho apprezzato facendo il film è l’accuratezza: qualsiasi persona lavorasse in televisione, all’epoca, era di alto profilo culturale. Per citarne uno, Mago Zurlì (l’indimenticato Cino Tortorella, scomparso nel 2017, ndr): un grande professionista prestato a un programma per bambini. Se recuperassimo quell’attenzione per la cultura, forse potremmo cambiare la società. E’ inutile prendersela con i ragazzi e incolparli del deperimento culturale: i responsabili di questa società non sono loro, ma noi».

Perché, secondo lei, non si crede più nella cultura? Forse spaventa perché libera? 

«E’ il mondo della tecnica, nel quale gli studi umanistici sono stati accantonati. Pensate ai mestieri che si occupano di cultura rispetto a quelli che si occupano di tecnica: i primi sono fortemente svalutati, al contrario dei secondi. La lingua che ascoltiamo anche nelle canzoni di oggi è assai sciatta. La vera ricchezza, diceva don Milani, è data dal numero di parole che si conosce, perché la lingua è sostanza».

Anche Dario Fo, nel “Mistero buffo”, per spiegare l’origine del potere, fa l’esempio del signore che si appropria delle terre e dice al contadino di avere un contratto firmato da Dio. Non sapendo leggere, il contadino è costretto a darla vinta al padrone.

«Proprio così. Bisognerebbe riappropriarsi di una cultura umanistica dedita all’amore e alla bellezza, in cui l’uomo non sia superiore, ma misura di tutte le cose».

Siamo una società più ignorante rispetto al passato? E’ venuto meno il sogno? 

«Negli anni ’70, quando la scuola è diventata di massa, si vedeva nell’istituzione scolastica un ascensore sociale. Oggi forse solo i figli degli immigrati ci credono ancora. La scuola è stata svuotata di senso. Sicuramente 70 anni fa c’era la speranza, oggi non si ha più fiducia nel futuro di questa Nazione. Bisogna tornare a dare valore al lavoro: anche le occupazioni nel settore agricolo, per esempio, sono un patrimonio importantissimo».  

Occuparsi della “vita dei campi” è cultura: non dimentichiamo, per esempio, che gli ulivi sono opere d’arte e il loro nome deriva dal greco “Élaion”, che sopravvive nei nostri dialetti. 

«I greci peraltro davano un significato particolare alla natura e la deificavano».

Una giovane Giusy Frallonardo accanto al maestro Vittorio Gassman

Sappiamo che ha interpretato a teatro il personaggio di Mimì in “Ternitti”, tratto dal romanzo di Mario Desiati. Ci sono dei legami con Damianina?  

«Sicuramente l’affinità è che entrambe si occupano tenacemente della famiglia. Mimì, però, appartiene a una generazione molto più emancipata, sono due tipi di femminilità completamente diversi».

In quali aspetti delle due personalità si riconosce? 

«In realtà sono diversa da entrambe. Sono una donna meno forte, più riflessiva. Mi piace esplorare. Faccio questo mestiere perché m’interessano le vite e i sentimenti degli altri e mi piace confrontarmi anche con i miei limiti. Ogni donna che ho avuto la fortuna d’interpretare, ha lasciato in me qualcosa, talvolta delle cicatrici, come Damianina. Mimì mi ha segnata per la vita (le brillano gli occhi, ndr): non avrei mai avuto la sua forza. Mimì è una donna sfrontata e, al tempo stesso, capace di una poesia infinita. Mi ha regalato tanto coraggio. Nell’interpretare Damianina, invece, ho rivissuto molto la mia nonna materna, di origine contadina, con una sua regalità. Non ho avuto una vita semplice, ma, rispetto a queste donne, mi rendo conto che non è stata così drammatica». 

Com’è cambiata in questi anni la persona e l’attrice Giusy Frallonardo? 

«Al mio primo saggio di recitazione – non avevo neanche vent’anni – interpretai Maragrazia, protagonista de “L’altro figlio” di Pirandello. Quella donna che non riconosce il figlio perché frutto di violenza, mi ha aperto un mondo, è stata devastante per me, ho capito cosa significhi vivere le vite altrui. Quando sono andata in Bosnia e ho visto le donne che non riconoscevano i figli nati dalla violenza dei soldati, non mi sono sentita di condannarle, le ho comprese. Non sarebbe accaduto, se non avessi interpretato Maragrazia. Nina, nel “Gabbiano” di Cechov, quando spiega a Kostja di aver trovato la sua vocazione, dice che è “portare la mia croce”. Chi recita con consapevolezza porta la croce dell’umanità, perché interpreta personaggi anche scomodi o brutti, che, però, raccontano. Recitare è portare alla luce aspetti e frammenti dell’umanità».

Sebastiano Coletta

Giusy Frallonardo interpreta Mimì in “Ternitti”, dal romanzo di Desiati
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