Iniziamo una nuova serie di post che chiameremo “Le riflessioni di Smith”.
Saranno argomenti forti, che attraversano vari campi del mondo sanitario e non solo, queste riflessioni richiedono anche la vostra partecipazione che deve o dovrebbe essere rispettosa e civile, almeno spero.
La buona morte o la morte buona.
Da poche ore ho terminato una intervista per un rivista e fra le domande che più mi hanno colpito fra quelle poste dalla giornalista una mi è rimasta in mente.
Continua girare li fra le rotelle e gli ingranaggi del cervello e stasera dopo una ulteriore giornata dedicata al mio lavoro, trascurando purtroppo ancora una volta gli affetti personali , poco prima che finalmente Morfeo venga a portarmi via ritorna ancora in mente.
“Ascoltare èLa  la prima cura?”.
Si è vero, ascoltare è la cura, ma anche toccare, visitare con empatia, accarezzare la mano di un paziente, aprire la mente, studiare applicare le conoscenze studiate ed il buon senso clinico, migliorare o tentare di farlo l’organizzazione sanitaria, agevolare i percorsi, comunicare in modo semplice ed empatico le decisioni e provare sempre a condividerle, avere sempre dubbi e cercare di risolverli, fare in modo che il gruppo che tu guidi ragioni sempre in maniera univoca e si muova sulla stessa lunghezza d’onda.
Ma resta una sola grande certezza, dal momento in cui nasciamo abbiamo solo questo sicuro destino, moriremo.
E la malattia avvicina la morte, e ci pone davanti a tutte le paure ataviche che la fine della vita porta con se.
Accompagnare il paziente ad una buona morte o dir si voglia ad una morte buona, é un dovere di tutti noi e non solo dei medici ma anche e soprattutto di chi resta in vita dopo di noi.
Con questa certezza in testa proviamo ad approfondire: chi decide cosa?
Il paziente dovrebbe essere la risposta giusta.
Ed i parenti quale potere decisionale hanno?, figli mai visti che compaiono all’improvviso o mariti o mogli sempre presenti che decidono di sottoporre il parente a terapie inutili ed aggressive perché loro ( non il paziente) non si rassegnano.
Colleghi senza scrupoli che vendono vita o terapie chiaramente inventate speculando sulle nostre ataviche paure, o peggio santoni e stregoni che vendono panacee per tutti i mali.
Il nostro essere popolo latino non aiuta, pochi giorni fa ho avuto un sereno colloquio con il fratello ed il marito di una paziente londinese (che vive da molti anni in Italia) e mi sono reso conto di come l’ accettazione della morte sia molto più serena e consapevole nei popoli del nord Europa.
Allora un colloquio da uomo a uomo (o donna) da soli con il paziente può aiutare e ci spinge a decidere insieme cosa fare. Ma il successivo colloquio con i parenti modifica tutto.
Allora vi dico come vorrei morire io, nel mio letto, circondato ma non pressato da quelli a cui ho voluto bene, ascoltando jazz e senza dolore eccessivo.
E voi come volete morire?

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