L’Eremo di Vincent: una vita all’insegna dell’arte

GUAGNANO – L’eremo, per definizione, è un luogo appartato e solitario dove ci si ritira per dedicarsi a una vita di preghiera e contemplazione. È così che ha scelto di vivere la sua vita l’artista Vincenzo Brunetti, ormai conosciuto come “Vincent”, che ha dedicato la sua intera esistenza all’arte e alle persone, decidendo di aprire gratuitamente al pubblico la sua casa e di trasformarla in un’opera d’arte.

Vincenzo Brunetti

 

Vincent è lei o è un alter ego?

Vincent è il nome che mi fu dato senza volerlo da un gallerista, Roberto, forse anche con l’intento di ricordare Van Gogh. Io dovevo fare una mostra nella sua galleria a Milano e nel momento in cui doveva essere fatto il catalogo mi disse che “Vincenzo Brunetti” non andava bene. Decise di mettere semplicemente Vincent: questo nome fu la mia fortuna e da allora tutto il mondo mi conosce così.

Lei si sente più Vincent o più Vincenzo?

Attualmente Vincent, questo perché ho un’avversione per le ingiustizie che hanno subito gli artisti che sono quasi sempre tutti morti di fame. Sono sempre stati l’ultima ruota del carro, il fagiolo nero tra i fagioli bianchi. Lo stato considera l’arte come l’ultima cosa importante, perché afferma che con l’arte non si mangia. Però vengono a visitare posti come questo. Come diceva il Vasari, “l’arte è degna solo degli alti intelletti”. Io questo lo so, perché vedo quante persone vengono qui, e sento di averli fatti innamorare del mio ideale. Il mondo lo hanno fatto gli artisti: gli obelischi, le piazze, le chiese. Io ho preso consapevolezza del mio essere ed esigo il rispetto, perché quando sarò morto a me tutto questo non servirà più a niente. Quello che mi serve adesso è l’affetto e l’apprezzamento della gente, perché è quello che mi da la carica. E questo io l’ho ottenuto.

Come mai vive in questo posto?

Io vivo qui da trent’anni. Nel ’93 ho lasciato Milano e sono venuto qui dove c’era questa casa grezza che io avevo fatto in passato, era una cappella votiva. Quando decisi di lasciare Milano io ebbi un’incidente stradale con Paola Borboni, una famosa attrice di teatro ormai venuta a mancare. Andammo a Venezia dove lei doveva fare uno spettacolo e io invece una scultura in pubblico. Al ritorno ci fu un incidente gravissimo ma io riuscii ad uscirne illeso, come anche un’altra volta in un altro incidente, anche lì illeso. Decisi in quel momento che la mia vita era cambiata e che dovevo pendere un altro tipo di percorso, nella mia casa qui e seguendo la mia stella. Dovrebbero tutti lasciare guidare e seguirla. Molta gente viene qui perché non trova risposte, ma io non posso dargliele. Posso solamente fare da Caronte, traghettarli.

Crede che questa indole sia stata un’opera divina o qualcosa che viene da dentro di lei?

Questa è una domanda un milione di dollari. Io ho sofferto molto per la religiosità: ho talmente cercato questo Dio. Un giorno ero a Milano e guardavo il cielo grigio di una giornata grigia come tante altre e mi sentii paurosamente solo. Non auguro a nessuno quello che ho provato in quel momento. Mi sono sentito solo e ho provato proprio la solitudine, quella vera:  se sei te a cercarla è bella, ma se ti cerca lei è orribile. Io me la sono fatta piacere, perché mi sono detto “tu mi hai cercato e io ti andrò contro, me la farò piacere così non avrai potere su di me”. Ad oggi non mi sento più così: ho lavorato su di me, sulla capacità di superar i problemi e sulla solitudine, tant’è che adesso viene un sacco di gente a trovarmi, non sono mai solo. Io sono un papà di tutti: i giovani vengono qui, mi ammirano, mi parlano, mi ascoltano.

Spesso mi arrabbiavo con Dio perché era come se fosse inesistente, per le ingiustizie, la libertà negata, il mondo in rovina. Ma se c’è sa come la penso. Penso che se mi abbia dato un cervello sia affinché io ragioni. Però, le risposte me Lee ha date in qualche modo, e le vedo attraverso ai miei quadri.

Dio mi ha messo al mondo, secondo il Peccato Originale, per farmi soffrire, e non riuscivo a capacitarmi del perché: era come se mi avesse causato violenza creandomi senza una sorta di “mio permesso”. Ci insegnano che siamo creati per amore, e io ho avuto la risposta a questo facendo il discorso contrario: avevo una tela bianca che mi ha parlato, dicendomi che voleva rimanere bianca. Io invece l’ho dipinta, decidendo per lei. Così è stato anche per me e per il mio esistere.

Ho pensato: “Dopo averti servito,  Signore, mi devi dare la buona uscita. Non voglio soldi, voglio la libertà, ed essere anche libro da te”. Come sto bene, adesso.

La frase di D’Annunzio che leggo qui fuori, “Fate della vostra vita un’opera d’arte”, cosa significa per lei?

La gente quando viene qui rimane abbagliata e basita dalla sensazione di serenità che la casa da. Agli occhi miei vedo tutti artisti: il falegname, il carpentiere, il netturbino, il dentista, sono tutti artisti se fanno con passione il loro lavoro. Non serve essere  per forza pittori, scultori, architetti. La casa ha avuto successo perché ho tanto amore per la gente e la gente da me si sente amata. Quando morirò un giorno, oltre ai miei quadri, rimarrà di certo qualcosa di me.

Dove ha trovato i pezzi e i tasselli per creare tutto questo?

Nel 1993 venni in questa casa per le vacanze e poi decisi, inaspettatamente, di trasferirmici definitivamente. Ogni anno, quando arrivava settembre, chiamavo il trasportatore per farmi portare i quadri a Milano. L’estate del ’93, il trasportatore mi disse che il camion non era pronto e dovetti aspettare una settimana. Quindi, per non  stare senza fare niente, mi venne l’idea di sistemare la cappella votiva in modo da posizionare un tavolino per mangiare all’aperto l’estate. Parlai con un mio amico muratore e gli chiesi se fosse disposto a decorare la parete della cappella e della cripta con delle piastrelle usate. In due giorni realizzò il tutto. Poi mi venne l’idea di realizzarci una cornice intorno, sempre con delle piastrelle. Andai da un mio amico per chiedergli altre piastrelle e mi mandò in una specie di cantiere a recuperarle fra mille altre. Uscendo da lì, il destino. Venne a vedere la centina che avevo fatto e questo mio amico mi propose un accordo. Tutte le piastrelle del capannone, dove avevo recuperato le precedenti e che erano da buttare perché ormai fuori moda, sarebbero state mie per 3 milioni di lire. Lì dentro c’erano fra gli 80 e i 100 milioni di materiale, mi sembrò un affare e lui, in fondo, doveva sbarazzarsene.

La mattina dopo arrivarono dei tir a casa carichi di piastrelle di tutti i tipi: erano talmente tante che per un momento pensai di aver fatto una stupidaggine. Poi mi accorsi del tesoro che avevo: il mio amico a Milano aspetta ancora che torni.

Aurora Lezzi

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