INTERVISTA – Occhi ‘a spicchi’ e cuore biancazzurro, Marco Esposito: “Sogno di allenare la squadra della mia città”

BRINDISI – Prosegue, anche in questa settimana che apre al Natale, il consueto appuntamento con l’intervista di Newspam.it, attorno al mondo cestistico targato Enel.

La nostra redazione, questa volta, ha scelto tra lo staff tecnico ed abbiamo incontrato l’assistente coach, Marco Esposito. Si capisce fin da subito che al posto del cuore gli batte un pallone da basket biancazzurro. Giovanissimo e brindisino, ha iniziato a muoversi nel mondo della palla a spicchi sin da ragazzino, quando era sugli spalti del PalaPentassuglia a tifare i suoi idoli, non sapendo che un giorno avrebbe anche lui calcato quel parquet.

Marco, la tua carriera nel mondo cestistico è iniziata prestissimo. Hai lavorato anche con l’Olimpia Milano. Ci vuoi raccontare il tuo percorso?

“Da piccolo pensavo a fare il calciatore. Ma quando avevo dieci anni, mio fratello che faceva basket nel settore giovanile, mi portò a vedere qui una partita di serie B d’Eccellenza e mi ‘innamorai’ di Giovanni Parisi e da lì è partito tutto quanto. Dissi a mio fratello ‘io voglio essere come lui’. Così, iniziai a fare minibasket, fino a 18 anni. Poi, al mio secondo anno di università (ha fatto Scienze Motorie a Milano, ndr), ebbi l’opportunità di fare uno stage presso l’Olimpia Milano. In quell’anno venne a mancare, purtroppo, un allenatore del settore giovanile e, così, mi chiamarono”.

Hai detto che da piccolissimo seguivi il basket locale. Ora sei nello staff dell’Enel. Da brindisino quale sei, cosa provi quando scendi in campo con i colori della tua città?

“E’ sempre una sensazione particolare. Ricordo quando feci il mio primo ‘Memorial Pentassuglia’…scendere in campo per rappresentare quella che è la passione della mia città, è una sensazione incredibile. Oggi rimangono ancora quelle sensazioni, magari, ovviamente, un po’ più attenuate. Ogni volta che c’è una partita, da brindisino, sento addosso un peso maggiore. Sono contento il doppio se vinciamo. Su una cosa, però, devo migliorare: vivo la sconfitta come se fosse una cosa personale e sento addosso il dispiacere dei tifosi”.

Invece, il tuo percorso ed il tuo rapporto con la Nazionale?

“Il mio rapporto nasce grazie alla stretta collaborazione, negli anni con l’Olimpia Milano, con colui che definisco il mio mentore: Mario Fioretti (assistente della Nazionale, oltre che dell’Olimpia, ndr). Quattro anni fa ci fu la possibilità di aggregare in Nazionale una persona e lo stesso Fioretti spinse affinchè fossi io e così è iniziato il mio percorso: due europei ed un preolimpico. Considero tutto questo come un premio, perché la Nazionale ti gratifica. Ovviamente non c’è mai la certezza di una chiamata, ma per me questo è uno stimolo per dare sempre il massimo”.

Tuo padre era un maresciallo dell’aeronautica e poi anche un giornalista. Quale è il tuo rapporto con la stampa?

“Una rapporto particolare. Perché quelli che ora sono giornalisti affermati, li conosco da quanto ero piccolissimo e mi hanno visto crescere. Essendo un assistente, non ho un rapporto diretto, ma è sempre bello leggere i giornali”.

C’è qualcosa che non ti piace dei giornalisti locali?

“In linea generale, assolutamente no. Però, vorrei fossero più presenti durante la settimana, informarsi sulle sedute di allenamento, senza basarsi sulla conferenza del venerdì o sulla gara della domenica. Io, piuttosto che Sacchetti e tutto lo staff tecnico, risponderemo sempre a tutti e saremo disponibilissimi”.

Hai avuto la fortuna e l’onore di lavorare con Peterson, Bucchi e Sacchetti…

“Sì, ma è giusto menzionare Scariolo, Banchi, Pianeggiani e Messina. Peterson è un uomo dal carisma pazzesco e può essere solo un esempio per tanti allenatori. Ha una memoria ed una forza incredibile, nonostante la saggia età. Cerca di dare qualcosa di suo ai giocatori, soprattutto dal punto di vista umano. Bucchi e Sacchetti sono allenatori di pugno, ma diversi tra loro. Bucchi cercava di mantenere una intensità di lavoro sempre costante. Sacchetti riesce a lasciare un po’ più la corda, in modo tale che i ragazzi, in allenamento, siano più fiduciosi dei propri mezzi”.

Compirai 30 anni il prossimo 4 di gennaio e, quindi, sei giovanissimo. Quale è il tuo rapporto con i giocatori?

“Bellissimo. E’ normale che i ragazzi vedano in me la giovane età e spesso succede, magari, che si crei, sul campo, un rapporto leggermente più confidenziale. Credo sia fondamentale in una squadra che ci sia il classico ‘bastone e carota’. Tengo a specifica una cosa, per me fondamentale: quando un giocatore si rende conto che tu, allenatore o assistente, stai cercando di dare il massimo per prendersi cura di loro, allora, anche loro daranno sempre il 100%”.

La butto là, per scherzare… Sei anche un giocatore della Dinamo. C’è, però, qualche tuo amico malizioso che sostiene che è meglio tu faccia solo l’allenatore e non il giocatore… (ridiamo, ndr).

“Ho un amore per questo sport spassionato. Ad oggi, mi rendo conto di aver dedicato tanto della mia vita al basket. Ho fatto sacrifici pazzeschi, dedicandomi più a questo sport, anziché alle amicizie o alla ragazza del momento. Quando finisco di lavorare qui, vado ad allenarmi con la Dinamo ed è, per me, uno sfogo e scarico la tensione. Inoltre, giocando, mi rendo conto che alcune cose che chiedo come allenatore sono impossibili da fare”.

Parlando di basket giocato, che squadra è l’attuale Enel?

“E’ una squadra vivace che fa dell’entusiasmo la sua forza principale. Nella partita contro Milano, si è visto un gruppo ‘affamato’ e che sta migliorando. Contro Pesaro, pur non giocando benissimo, ha dimostrato carattere e cuore. Poi, questo gruppo è allenabilissimo, che è la cosa più bella per i coach”.

Io li chiamo “i 10 minuti maledetti”. L’Enel, spesso, cade proprio nell’ultimo periodo di gioco. Cosa succede?

“Molti giocatori vengono da realtà diverse e, quindi, approcciano in maniera differente alla gara. Credo sia solo una questione di forza mentale. Forse, dovremmo provare, negli ultimi 10’, a giocare in maniera un po’ più corale, non cercando le iniziative personali. Nell’ultimo periodo, la partita bisogna finirla insieme”.

Contro l’Olimpia, Brindisi ha giocato alla pari per 30’. Cosa manca affinché quei 30’ di Milano siano una costante nel corso di tutto il campionato?

“La domanda più difficile che mi abbiano mai fatto (sorride, ndr). Forse, la costanza e l’intensità, ma ci vuole lavoro e tanto altro lavoro ancora in allenamento. Rispondo dicendo che dobbiamo continuare a lavorare, come stiamo facendo”.

Quando ho chiesto ai giocatori cosa piacesse a loro del ‘credo’ di Sacchetti, mi hanno riposto tutti il fatto che lascia liberi di giocare. Da assistente, a te cosa piace del nuovo coach?

“Lui dà tanta fiducia ai giocatori e dà tantissima fiducia anche agli assistenti e, di questo, ne sono molto contento. A me, che conosce da pochi mesi, non mette tanta pressione ma, al contempo, riesce a responsabilizzarmi e non è una cosa da poco”.

Classifica alla mano, bisogna guardarsi dietro…

“Non credo. Bisogna guardare tanto a se stessi e pensare prima a ciò che facciamo noi, senza preoccuparci di chi sta davanti o dietro”.

Senza essere particolarmente ottimisti o catastroficamente pessimisti, secondo te, dove vedremo questa squadra a maggio?

“Questa squadra è capace di tutto, nel bene e male. Sono convinto possa arrivare alle final-eight e raggiungere i playoff, a patto che lavori come sta facendo ora”.

Chi è Marco Esposito?

“Sono sicuramente ambizioso: sogno di poter diventare capo allenatore ed anche, un giorno, di poter allenare la squadra della mia città. Sono determinato, un po’ timido, ma anche molto solare”.

Tommaso Lamarina
Redazione

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