Perché esiste l’universo? Come ebbe origine, se ha avuto un’origine? Avrà mai una fine? L’Universo è l’atto di una creazione? Per il geniale astrofisico Stephen Hawking, recentemente scomparso, solo una Teoria del Tutto forse potrebbe dare un giorno una risposta compiuta a queste mutevoli domande dell’uomo. I progressi della conoscenza scientifica, come quelli spettacolari della cosmologia, ci insegnano che la capacità di porsi di volta in volta le domande giuste è più importante delle risposte che si possono dare nell’immediatezza dei passaggi di fase, (come è stato ad esempio il passaggio dalla concezione tolemaica a quella copernicana dell’universo), di quei punti di svolta che sono le crisi in ogni campo della vita umana.
Credo che ciò valga anche nella vita politica e istituzionale di un Paese e di un partito.
Le elezioni del 4 marzo non costituiscono di fatto un passaggio di fase, un momento di svolta, una vera e propria crisi, nel significato greco del termine, che esigono la formulazione di domande sistemiche, “visionarie”, con le quali cimentarsi nella ricerca del futuro possibile, se non auspicabile, quali: le elezioni hanno segnato la fine di ciò che per economia di linguaggio chiamiamo renzismo?; siamo entrati davvero gioiosamente nella 3° Repubblica dei cittadini?; il PD ha un futuro?
Intanto, il dato elettorale ci dice che Salvini ha vinto su Berlusconi, e che i 5 Stelle hanno rotto il muro del suono, soprattutto nel Mezzogiorno, stravincendo con Di Maio. Il PD ha straperso e Leu non è pervenuta.
Ma i primi sviluppi postelettorali fanno intuire che Salvini mira a fagocitare elettoralmente Forza Italia, dopo averla fagocitata politicamente, nonostante i necessari accordi tattici momentanei necessari per l’avvio delle due Camere. Che Di Maio anela di raggiungere, anch’esso con altre elezioni, una maggioranza autosufficiente. E che, di converso, Renzi crede di poter ritornare presto in pista, in seguito al fallimento, del quale egli è certo, del duo concorrenziale Salvini-Di Maio.
Altrimenti parrebbe inspiegabile il motivo per il quale questi leader stanno assumendo un “protagonismo senza numeri” come se si fosse in un sistema maggioritario, e non si fosse invece ripiombati in un sistema proporzionale che misura solo la forza di partiti e coalizioni, la loro “rappresentatività”, e non predetermina Governi, i quali possono nascere solo con un compromesso se non si ha un’autosufficienza parlamentare.
Intanto, le elezioni hanno plasticamente dimostrato che Renzi non è l’usurpatore di una storia a lui quasi estranea, ma che egli è stato il prodotto di un gruppo dirigente che il popolo del PD non riconosceva più nelle sue guide, se è vero che il milione di elettori che ha abbandonato il partito non è rincasata in Leu, ma è esodata nei 5 Stelle e nella Lega, a cominciare dalle regioni rosse. Il 4 marzo Bersani e D’Alema hanno dolorosamente scoperto che nel bosco in realtà non c’era quasi nessuno che aspettasse il loro richiamo, se non i propri demoni! Il che umanamente dispiace per la storia della quale sono figli, potendoselo evitare.
Soprattutto, il 4 marzo reclama che il budino dei 5 Stelle vada in qualche modo assaggiato dagli italiani, affinché ne possano scoprire l’effettiva bontà, senza demonizzare un movimento che è riuscito comunque a connettersi con un vasto sentimento popolare, nonostante si sia caricato di qualche supponenza di troppo!
Ma ciò che oggi a noi PD deve premere, a mio modesto parere, è tentare di trovare le domande giuste capaci di costruire nel tempo un percorso di risposte efficaci alla sconfitta storica del PD e di Renzi.
Il renzismo, comunque lo si giudichi, finora è stato il tentativo di una risposta nazionale “responsabile” alla più devastante crisi economica (ma anche della civiltà, direbbe Huizinga) del dopoguerra.
Ora, tranne il giglio tragico, i tanti non renziani come me che hanno sostenuto lealmente la corsa riformatrice di Renzi, pur dissentendo spesso, come ad esempio sulle trivelle, possono disinvoltamente non rivisitare criticamente un percorso che è approdato a una solare cocente sconfitta, -cosa che dovrebbe fare innanzitutto Matteo Renzi!-, nonostante egli ci abbia incontestabilmente regalato, con i suoi “inciuci”, la più bella stagione legislativa sui diritti civili nella storia della sinistra italiana e dell’era repubblicana?
E’ vero o no che i positivi dati macroeconomici relativi alla crescita del PIL e dell’occupazione cozzano con il perdurare della grave sofferenza sociale del Paese, con l’accrescersi delle diseguaglianze e con le insostenibili condizioni materiali dei giovani e delle donne, soprattutto del Mezzogiorno, lontano dai livelli di pre crisi rispetto al Nord? A riprova, non dice nulla che perduri la crisi dell’edilizia, ad esempio, essendo essa l’indicatore più sensibile della salute di un’economia? Non è stata cioè la grande aspettativa, ritenuta tradita, che il corso renziano avrebbe tangibilmente e percettivamente risollevato l’economia, la molla fondamentale del furore antirenziano e anti PD, più che reddito di cittadinanza e paura degli immigranti?
Ciò non induce a ripensare alla politica economica che ha distribuito denari a destra e a manca nell’illusoria convinzione che si sarebbero virtuosamente generati consumi e non invece occasione di risparmio per le famiglie in deficit di fiducia nel futuro prossimo? Forse non occorreva, non occorrerebbe concentrare keinesianamente le poche risorse disponibili in un poderoso pluriennale piano di investimenti pubblici, in particolare infrastrutturali, capaci di generare lavoro, e lavoro stabile, durevole, innanzitutto nel Sud?
E Minniti, non è arrivato troppo in ritardo nell’immensa prateria lasciata cavalcare cinicamente a Salvini su quell’esodo biblico dell’immigrazione che dura da anni e che durerà a lungo nel tempo, decenni?
Domande che necessariamente oggi vanno poste, per il bene e il futuro del Paese, del PD e del centrosinistra, finora deluse da una reazione, sia pure umanamente comprensibile, da parte di Renzi, più d’animale ferito che da persona consapevole della portata storica di un voto che obbliga a “cambiare verso”, avrebbe detto per altri e altro egli stesso. Egli appare invece in attesa di una rivincita, più che minimamente concentrato in una rivisitazione autocritica delle politiche di questi anni, anche se hanno comunque avuto il merito, purtroppo non abbastanza riconosciuto, di risollevare il Paese dall’abisso nel quale lo aveva precipitato il centrodestra, di fungere da defibrillatore che ha rianimato un’Italia infartuata, quasi morta. Ma questo oggi non può né deve bastare!
Non cresce forse la sensazione che, indipendentemente dalla formazione o meno di un Governo, il renzismo così come lo abbiamo conosciuto sia finito di fatto con la sconfitta del Referendum costituzionale, essendone stato il suo pilastro? E che forse sia vitale che anche Renzi concorra ad aprire una fase nuova, “non renziana”, -al netto però di ogni velleitaria tentazione macronista, che quasi nessuno seguirebbe!-, depurando catarticamente partito e progetto politico da tante scorie culturali e politiche divisive, le quali ci hanno impedito e continuano a impedirci di avere una visione di società all’altezza dei tempi e della decadenza inarrestabile del socialismo in tutto l’Occidente, di far mantenere a noi, alla sinistra, al vasto campo progressista, “la testa sopra il pelo dell’acqua”, come ci ha insegnato Berlinguer.
E se, per rimetterci in cammino, ci affrancassimo da una concezione padronale del partito come se fosse una “ditta” o un insieme di ditte, e non una comunità di “liberi e diversi”, e sciogliessimo le correnti, che hanno combinato disastri elettorali, come in quel di Brindisi, e dei quali qualcuno di noi ne ha preso subito atto? Non sarebbe una rivoluzione democratica che bucherebbe lo schermo, rimotiverebbe il partito e parlerebbe al Paese? E se dicessimo basta a quella parodia deresponsabilizzante delle primarie dei numeri e aprissimo la stagione delle primarie delle idee e di progetti animati dalla crescente moltitudine degli esclusi, degli umili, dei precari, degli ultimi, senza gigioneggiare con i Marchionne di turno, con i quali abbiamo dato l’impressione di privilegiare pezzi di economia e di società forti, a scapito della preoccupazione per la stragrande maggioranza dei cittadini, -quella che è stata definita “la maggioranza invisibile”- che non ce la fanno più, come il Meridione, i giovani, le donne, che non vivono di quel decantatissimo “merito”, appannaggio privilegiato solo di nicchie “visibili” di società?
Domande di fondo, che spingano tutti, i democratici del PD, quelli che se ne sono inutilmente andati, quelli che ci hanno lasciato il 4 marzo per nuove chimere, quelli che popolano tutto il campo delle sinistre e del progressismo, alla ricerca paziente di risposte politicamente coinvolgenti di lungo periodo, un periodo assolutamente sconosciuto, indipendentemente dalla nascita dei Governi di oggi e di domani. 19 marzo 2018 Ernesto Musio

CONDIVIDI

LASCIA UN COMMENTO