“Enrico Le Noci e quel jazz che unisce” – di Sebastiano Coletta

Il jazz è desiderio di libertà, attaccamento alla vita, unione nella diversità. Quando la speranza in un mondo più bello sembra spegnersi, Enrico Le Noci, giovanissimo talento pugliese, classe ’96, all’attivo già un album, la ravviva con la sua musica. Note che esprimono passione vera e scevra dal conformismo, un invito a essere sé stessi sempre, in una sala da concerto come nella vita. Primo appuntamento della rassegna musicale online Vivinlive, ideata dai tecnici del suono Mimmo Galoppa e Cosimo Pastore, il concerto di Enrico Le Noci e il suo ensemble, “Enrico Le Noci Quartet”, si apre con “Martha’s Price”, brano che ricerca le sonorità pure del jazz, in una chiave interpretativa certamente raffinata. Merito anche degli ottimi strumentisti Eugenio Macchia (piano elettrico), Andrea Nicolai (batteria) e Giulio Scianatico (contrabbasso), catturati dalla tecnologia 8D, che permette un’esperienza sensoriale pluridimensionale. Se ci si pensa, in fondo il jazz ha una struttura ritmico-melodica molto semplice: uno o più temi che si ripetono ad libitum, arricchendoli con delle variazioni che si fanno sempre più complesse. Ogni esecutore è libero di variare secondo la propria sensibilità, ed è questa la vera sfida del jazz: suonare liberamente senza perdere di vista il tema, in stretta simbiosi con gli altri. Una sola nota fuori posto e l’intera struttura collasserebbe come un castello di carte. Non accade perché si crea un legame invisibile tra gli strumenti, che riesce a unire registri diversi in un’armonia poliedrica. “Pinocchio” è il secondo brano del repertorio, che si lascia contaminare dal ritmo swing, una delle molte ramificazioni del jazz, fiorita negli anni ’30-40 grazie a musicisti come Benny Goodman. Ma il vero jazz ha origine molto tempo prima: è il “grido” di esseri umani comprati in Africa per qualche campanellino di metallo e deportati nelle colonie del “Nuovo Mondo” per lavorare i campi. In un’epoca in cui la schiavitù e la discriminazione razziale erano ben tollerate dalla civilissima Europa, ai neri d’America non restava che la musica e il canto. Il blues, strettamente imparentato col jazz, è appunto il canto di chi è triste e “has the blue devils” ha i diavoli blu. Interessante l’etimologia della parola “jazz”, probabilmente dal kikongo “dinza”, eiaculazione. Un riferimento esplicito all’atto sessuale, a cui, spesso, il jazz fece da sottofondo nei bordelli di New Orleans, città dove, negli anni ’10 del 1900, incontriamo maestri del calibro di King Oliver e Jelly Roll Morton. Il jazz è un genere in fieri, in divenire, che dà origine nel tempo a nuovi stili, senza mai scomparire come entità musicale autonoma. Esempio della continua evoluzione del jazz è la “Shade of Jade” di Joe Henderson, eseguita nel concerto dopo “Stella by Stairlight”, quest’ultima una ballad – non blues – dal ritmo molto lento. Al più tradizionale “Milestone Old” segue l’ “Alter Ego” di James Williams. Se pensiamo che Williams nasce come organista in una chiesa Battista della Carolina del Sud, è facile intuire la straordinaria energia del jazz, non priva di una componente più intima: lo spiritual, alla base, con il gospel, di molti canti cristiani, che negli anni ’60 troveranno un valido accompagnamento nell’organo Hammond, strumento poi approdato nei complessi jazz e rock di tutto il mondo. Ci uniamo convintamente agli applausi virtuali a conclusione del concerto, augurando al giovane Enrico Le Noci di entrare nella scena internazionale senza dimenticare la sua terra, di portarla nel cuore ovunque vada, come quei neri d’America che hanno inventato il jazz.
Sebastiano Coletta

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