25 novembre: solo un paio di scarpe rosse

Oggi, 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Questa mattina non so quante donne indosseranno le scarpe rosse. Pensate se fossimo tutte a farlo. Niente proclami, niente cortei con slogan urlati ai quattro venti e dai quattro venti dispersi. Solo un paio di scarpe vermiglie, che percuotono il selciato in punta di tacco e fendono il muro dell’indifferenza con una goccia di colore che diventa mare, un mare rosso come il sangue delle 240 donne che ogni giorno nel mondo sono vittime di femminicidio.


Solo un paio di scarpe, un modo di prenderci per mano, di sentirci oltre che sorelle, amiche, madri e figlie, anche vittime di una stessa violenza, seppure quella violenza noi abbiamo avuto la fortuna di non subirla. Una sorta di filo rosso che ci unirebbe tutte in una lotta silenziosa quanto audace.

È stata l’artista messicana Elina Chauvet ad utilizzarle per la prima volta nel 2009 in un’istallazione pubblica per denunciare l’ondata di femminicidi avvenuta a Ciudad Juarez durante gli anni novanta. L’idea le era stata ispirata dalla tragica morte della sorella per mano del marito. Solo 33 paia di scarpe donate bastarono a rompere il silenzio, descrivere l’orrore ed esprimere tutto il dolore per quelle morti inutili. La volta successiva le scarpe furono trecento. Ora le Zapatos Rojas, ovvero una distesa di scarpe rigorosamente rosse che identificano il numero delle violenze, delle morti e dei maltrattamenti che le donne subiscono nella loro vita, sono diventate il simbolo internazionale contro la violenza sulle donne.
Quindi perché non andare oltre, perché non indossarle?


Forse perché un paio di scarpe rosse non può nulla contro la violenza cieca del maschio che esplode verso una donna considerata di sua proprietà.
La stragrande maggioranza di omicidi succede all’interno di un nucleo familiare, di una coppia, dentro le mura della propria abitazione, in un contesto che più di imprevedibile è incontenibile.
È così difficile immaginare che l’uomo che ti ha tenuta stretta tra le sue braccia, che hai amato e che ha detto di amarti possa prendersi la vita quando già ti ha tolto tutto e non ha altro da toglierti. Annichilita dalla sofferenza, dalle umiliazioni subite, dalla violenza continua perpetrata nel tempo, attanagliata dalla paura ti sembra di non avere nessuna via d’uscita mentre il livello di sopraffazione aumenta fino ad arrivare all’atto finale dove paghi con la vita sia l’incapacità di liberarti, sia il tentativo di sottrarti.
Perché non bastano il telefono rosa, i numeri utili, i gruppi di auto-aiuto, le forze dell’ordine, i centri antiviolenza a sfuggire alla furia omicida del maschio.
Bisogna avere il coraggio di denunciare.
Bisogna cambiare le norme che consentano alle varie forze in campo di intervenire con strumenti di prevenzione maggiormente efficaci.
E soprattutto bisogna cambiare le coscienze.
Perché il femminicidio resta un fenomeno troppo spesso ignorato e sottostimato.
Viviamo in una società violenta e decadente. Forse non più violenta che in passato e neanche più decadente. Probabilmente più sfaccettata e contradditoria, da un lato la lotta per i diritti umani, per la parità di genere, per l’abolizione delle disuguaglianze e della povertà, per la salvaguardia dell’ambiente, dall’altra i muri sui confini, lo sfruttamento delle donne e dei bambini, i poveri del mondo abbandonati a se stessi, le guerre di potere, gli interessi delle grandi lobbies.
Ci sentiamo schiacciati da un’informazione globalizzata che ci travolge con immagini di cronaca nera, di incidenti, di ponti che crollano, paesi che franano, di guerre, di violenze e di devastazioni, di pandemie, di contrabbando di droga, di armi e di uomini.
Tutto accade in maniera troppo veloce per essere metabolizzato. Un senso di impotenza ci pervade, siamo confusi, frustrati, isolati in una sorta di incomunicabilità emotiva, e non sappiamo neanche come salvare noi stessi. I social ci risucchiano in una realtà virtuale in cui i nostri avatar ci consentono di vivere momenti di gloria, postiamo foto di una vita simil felice, di amori e dolori ostentati, di grandi comitive di pseudo amici. Diventiamo Vip, anche se solo per un giorno, e questo in qualche modo appaga Il nostro bisogno di non sentirci insignificanti pedine, meri numeri statistici. Così anestetizzati stiamo diventando una società impermeabile al dolore, alla dignità offesa del più debole, al valore della vita e veniamo dirottati altrove.
Ma oggi potremmo provare a indossare un paio di scarpe rosse, a non lasciarle solo come un allestimento vicino a una panchina, oggi potremmo far sentire il rumore dei tacchi come un tam-tam, un messaggio che si propaga nell’etere senza parole, ce ne sono già troppe. Solo un suono, un ritmo con cui sfidare il potere del maschio sulla femmina, del forte sul debole, del ricco sul povero. E sarebbe bello se al nostro fianco ci fossero anche gli uomini.
ERRE

 

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