Don Chisciotte della Pignasecca: un pazzo che combatte contro l’inaridimento degli uomini

Domenico Summa

BRINDISI – Il “Don Chisciotte della Pignasecca” portato in scena al Verdi, riscritto da Maurizio De Giovanni (padre del commissario Lojacono de “I bastardi di Pizzofalcone”) e diretto da Alessandro Maggi, è liberamente tratto dal capolavoro della letteratura mondiale di Miguel de Cervantes; ma davvero molto liberamente, dato che conserva poco dell’originaria opera letteraria.

I protagonisti della rappresentazione sono Nando Paone e Peppe Barra, rispettivamente nei panni del capitano Michele Ghigliotti e del suo attendente Salvio Panza, entrambi reduci dalla seconda guerra mondiale, con il primo che, a causa di una ferita alla testa rimediata in guerra, ha perso la memoria (e apparentemente il lume della ragione) e girovaga assieme al suo fido compagno alla ricerca del luogo dove si trova nascosto il suo tesoro di famiglia.

Tale luogo coincide con l’ambientazione della rappresentazione, ovvero una locanda gestita da uno squinternato locandiere soffocato dai debiti nei confronti del cattivo di turno, l’usuraio “Don” Carlo Mazza. Il locandiere – di nome Pasquale Finizio – riesce a tirare a campare più con i soldi “facili” guadagnati dalla sorella (la bella Rosina) che con quelli rivenienti dalla gestione approssimativa della locanda, frequentata quasi esclusivamente da un professore bloccato nel passato ed irretito dalla paura di affrontare il mondo.

In una Napoli segnata profondamente dalla guerra, dove ogni brutalità viene ammantata di apparente razionalità giustificata dalla necessità, e dove finanche un fratello spinge la sorella a concedersi al perfido Don Mazza pur di continuare a sopravvivere, l’unico che sembra conservare un barlume di raziocinio è proprio il capitano Ghigliotti, che attraverso le lenti distorte dalla guerra viene visto da tutti come il pazzo da compatire, e ciò sol perché, credendosi un cavaliere, fa della sua vita una pedissequa osservanza del codice cavalleresco. Ed allora, in una Napoli dove tutti sembrano davvero impazziti, l’unico che rispetta la donna, l’unico che antepone la spiritualità alla materialità, insomma, l’unico che resta umano è il pazzo.

Ed ecco allora che il Don Chisciotte di De Giovanni lotta da solo contro l’inaridimento degli uomini procurato o acuito dalla guerra. D’altronde, come ricorda il nobile cavaliere, la dignità è l’unico valore inalienabile.

Così, il ritrovamento dello scrigno contenente gli oggetti legati all’infanzia del capitano rafforza il concetto secondo il quale ciò che è materiale è ancillare rispetto a ciò che è immateriale, perché solo la ricchezza d’animo consente di vivere piuttosto che sopravvivere. Ché a sopravvivere sono capaci tutti.

 

Andrea Pezzuto
Redazione

1 COMMENTO

  1. Lavoro bellissimo, ricco di sognante poesia, come nella tradizione del teatro di Peppe Barra, magnifico istrione figlio di Partenope, che i brindisini conoscono e ammirano sin dagli anni 80, quando calcava la scena in compagnia della madre Concetta. Molto valida la performance di Nando Paone, il quale si è calato alla perfezione nella parte di don Quijote, personaggio classico, sempiterno che ribadisce il topos del diverso posseduto da una sana follia che lo rende più umano, sensibile e sapiente di chi, intorno a lui, si ritiene ” normale “. Apologo illuminante che ci fa meditare ancora oggi

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