In un disinteresse generale, sovente avvertito dalla gente come un fastidio, è formalmente iniziata una campagna elettorale, che in effetti aveva preso l’avvio subito dopo l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Matteo Renzi, costretto da un’eccessiva personalizzazione a dimettersi da Presidente del Consiglio e Segretario del PD, aveva subito avviato una frenetica rincorsa per tornare in sella, convocando un Congresso del proprio partito in tutta fretta e spingendo per ottenere le elezioni anticipate, che avrebbero dovuto costituire l’occasione per la rivincita. Non aveva fatto i conti con la lucida freddezza del Capo dello Stato, che ha incoraggiato il Governo Gentiloni a proseguire nel suo delicato lavoro sino alla fine della legislatura, senza lasciarsi influenzare da nessuno. Nel corso dell’anno trascorso, il rampante fiorentino ha continuato ad inanellare errori, fino a precipitare nell’indice di popolarità ed a mettere in pericolo il risultato del PD, che, oltre ad aver subito una scissione, si presenta alle elezioni con una minoranza umiliata a causa di una rappresentanza nelle liste poco più che simbolica, mentre è inoltre penalizzato dalla debolezza di una coalizione inesistente, che non può aspirare a tornare al governo.
Lo scenario elettorale, articolato in tre poli principali, rende difficile credere che dalle urne possa uscire una solida maggioranza parlamentare. Pur avendo consolidato la sua presenza sul territorio, i pentastellati, non crescono per l’immagine dilettantesca che offrono di se, tanto da aver determinato un prudente passo laterale del furbo fondatore Beppe Grillo. Il candidato Premier Luigi Di Maio, nonchè responsabile politico nazionale , non supportato da una cultura politica  sufficiente,  sconta inoltre gl’insuccessi delle amministrazioni grilline, a cominciare da quella di Roma. Sono quindi esplose le prime divisioni interne, le polemiche per un sistema non trasparente nella selezione delle candidature, insieme ad alcune scelte infelici, che stanno lentamente erodendo la base elettorale. È certo che l’obiettivo di superare il trenta per cento dei voti non potrà essere raggiunto.
Il centro destra invece, pure non esente da problemi interni di omogeneità, registra una lenta, ma progressiva crescita, che potrebbe non soltanto qualificarlo come prima forza parlamentare, ma assicurargli anche una risicata maggioranza. Il rischio che si possa trattare di una coalizione per vincere, non per governare, è tuttavia molto elevato, in quanto l’attenzione è stata rivolta prevalentemente all’aggregazione di gruppi e personaggi dalle storie e dai profili più disparati, anziché dedicarsi con impegno e pazienza a riunire forze idealmente omogenee, in grado di ritrovarsi in una comune, credibile piattaforma programmatica per la modernizzazione del Paese. Il centro destra è vissuto dall’elettorato come la migliore opzione sul mercato, ma difetta di una proposta in grado di coinvolgere pienamente l’entusiasmo degli elettori. Sono saliti a bordo troppi convertiti dell’ultima ora, troppi professionisti delle preferenze clientelari, troppi candidati selezionati all’insegna della fedeltà e non della qualità.

La Lega ha compiuto lo sforzo di sdoganarsi dal tradizionale ruolo di movimento territoriale, ma un processo così delicato avrebbe avuto bisogno di più tempo e di una proposta più convincente per le aree del Mezzogiorno. Il PLI è stato chiamato, anche se tardi, a partecipare con propri rappresentanti a tale complesso rinnovamento, con scarsa possibilità quindi di incidere sia sul terreno dei programmi politici che su quello dell’impegno concreto. Un percorso verso posizioni liberali in effetti è evidente nella proposta della Flat tax, come nella forte richiesta di riduzione delle barriere burocratiche e della spesa pubblica, pertanto la riduzione delle tasse significa più soldi al servizio della crescita, rendere cioè più produttivo il capitale nel ciclo fiscale, visto che non è scritto da nessuna parte che il capitale pubblico debba essere necessariamente improduttivo. Insistendo maggiormente sulla urgenza dell’abbattimento dell’enorme debito pubblico, il partito di Salvini apparirebbe come forza responsabile, rispetto ai venditori di sogni. Allo stesso tempo andrebbe chiarito che la nuova Lega non è una forza antieuropea, ma che essa intende battersi per una profonda riforma ed un rilancio dell’UE, che veda l’Italia, Paese fondatore, riassumere il ruolo che le compete da coprotagonista insieme a Francia e Germania.
Il PLI intende darsi il ruolo di elemento di stimolo verso il proprio alleato preferenziale per una profonda rifondazione della nostra scuola e dell’Università, onde mettere al primo posto la qualità dei saperi e non la logica mortificante del diplomificio, che ha prodotto disoccupazione e frustrazione nei giovani. Inoltre va rafforzata la battaglia, che pure Salvini ha avviato, per eliminare la figura dello Stato imprenditore, con un programma imponente di privatizzazioni e liberalizzazioni. Infine, ma non per ultima, va affrontata una grande, coraggiosa riforma della giustizia penale, civile, amministrativa e tributaria, per ridare credibilità al Paese e renderlo attrattivo per gli investimenti internazionali.
Siamo stati criticati per la nostra scelta di alleanza preferenziale. Intendiamo fare in modo di smentire i nostri eterni detrattori. La Lega di Salvini è forse l’unica reale novità in un panorama politico certo non esaltante. Non potevamo non cogliere tale fermento ed intendiamo dare il nostro apporto per agevolarne l’ulteriore evoluzione in senso liberale.
Allo stesso tempo sottoscriviamo anche noi la solenne dichiarazione di ostilità verso il trasformismo, impegnandoci, insieme agli amici della Lega, a non stipulare nessuna alleanza nella prossima legislatura con il PD, responsabile della disastrosa situazione in cui versa la nostra Italia, né con il movimento M5S.

Angelo Caniglia

componente della Direzione Nazionale PLI

Presidente regionale

 

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