Le storie nere, si sa, sono capaci di restituirci l’immagine riflessa degli aspetti più torbidi della realtà, costringendoci ad una duplice disfatta: quella di fronte agli ingranaggi del mondo e quella che ci rende figure tragiche al cospetto dell’inconoscibilità dell’animo. È esattamente ciò che accade nel nuovo romanzo di Antonella Lattanzi, Una storia nera (Mondadori), in cui l’autrice riesce a sconvolgere il lettore per il dolore che una storia familiare ventennale può spargere e a farlo sentire oppresso dal mondo che afferma il suo ruolo a margine della vicenda: gli interrogatori, un sistema giudiziario che appare annoiato e insensibile, il clamore mediatico che rivendica un’idea di giustizia a misura di talk show.

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Lattanzi apre uno squarcio sulle esistenze dei tanti personaggi che affollano il romanzo, consegnandoci una storia avvincente che ruota attorno al delitto di Vito, uomo bello e violento originario di Massafra, padre di tre (o quattro?) figli e diviso tra due donne – Carla, la ex moglie, e Milena, l’amante di una vita. L’onnisciente narratore procede per salti, concedendoci di conoscere la porzione di verità dei vari personaggi ma anche quelle loro interiorità così ferite, rabbiose, rassegnate. A far da sfondo all’omicidio, epilogo di un amore folle, violento, cieco, Roma schiacciata dall’afa o dalla tempesta e spogliata di ogni attrattiva, il Pigneto, il degrado diffuso, gli uccelli trasfigurati in creature da cui sentirsi atterriti, gli interni angusti condivisi con mostri tutti nascosti. E, infine, resta ben poco della verità che dopo molti sovvertimenti ci eravamo illusi di aver ricostruito: d’altronde «voi lo sapete perfettamente quello che pensate? Quello che volete? Voi potete dividere tutto con certezza, giusto e sbagliato, sì e no, questo e quello? Se voi potete io vi invidio con tutte le mie forze». Come ci si aspetta da una storia nera.

Diana A. Politano




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