“Tutti i nostri corpi” di Georgi Gospodinov

Muoversi attraverso una letteratura che si è frequentata poco aggiunge un elemento di avventura ulteriore al piacere della lettura: non solo nuove storie, ma anche nuovi indizi sulla cui base ricostruire i modi di intendere le cose, le attitudini di pensiero, le angosce e i piaceri esistenziali in forma di parole sconosciute. Georgi Gospodinov è autore bulgaro poco più che cinquantenne, considerato tra i più talentuosi della sua generazione: in Italia, con l’editore Voland, si è fatto strada col suo lavoro d’esordio Romanzo naturale, e magari alcuni lo ricorderanno per Fisica della malinconia del 2013. A me è capitato di incrociarlo grazie a Tutti i nostri corpi (sempre per Voland), un libro fatto di racconti densissimi, conchiglie in cui trovare impressioni vivaci, lettere mai spedite «scritte con amore e squallore», dolci conte «delle cose grazie alle quali mi sostengo». Vi troviamo piccoli mondi in cui, ad occupare lo spazio della nostra attenzione, sono i dettagli, qualche insetto e tutte le storie impossibili di cui è pur possibile fare collezione («Storia delle nuvole del XII secolo, Storia del desiderio di essere altrove, Storia delle mosche nate nel 1968 e morte nello stesso anno, Storia della malinconia alle sei di sera, Storia delle storie impossibili»). A fare da sfondo a questi racconti brevi – ironici, assurdi, grotteschi e dalla vena lirica profonda – c’è l’intento di sovvertire l’affermata gerarchia della letteratura odierna «secondo la quale al di sopra di tutto il romanzo» e di cogliere quelle istantanee, fulminee verità che abbiamo sotto agli occhi, incastrate tra i banali oggetti dei nostri giorni e tra le pagine di un libro di grammatica («come se la felicità fosse più facile a spiegarsi dal punto di vista della grammatica. È sempre al tempo presente»). Ci sono frammenti di mondo in questo libro, quasi interamente composto durante un soggiorno a New York, Portogallo, Svizzera, e qualche pezzetto di Bulgaria. La troviamo nel tenero ricordo della nonna che lo accompagnava nel sogno tenendogli la mano finché la paura non era passata, nella riflessione sui giardini zoologici progettati come i dormitori di cemento delle periferie («Che bisogno c’è di affibiare il socialismo anche agli animali?»). Torna – la Bulgaria – nel lokum, nella baklava e nel burek che sanno di casa e che a noi è dato di assaporare attraverso queste fragranti parole; affiora per la malinconia di una casa che non c’è più o, ancora, nel constatare una volta ancora che i bulgari siano ricordati perché muovono la testa al contrario di tutto il mondo, «’no’ così, e ‘sì’ invece così». Se c’è qualcosa, tuttavia, che mi riconnetterà per sempre a questo libro, quello sono i pomeriggi: le riflessioni dei racconti sembrano nutrirsi della particolare luce pomeridiana, del suo essere «un tempo radicalmente altro, tempo nel tempo, un marciapiede nascosto, una nicchia, un corridoio». Il primo pomeriggio «è la profonda notte del giorno» e può ben capitare a Gospodinov, mentre gli altri riposano, di essere testimone non visto di una lotta tra il vecchio vicino e una mela. Solo il tempo dilatato e lento del pomeriggio può accogliere in sé la parola bulgara per malinconia (tăgà, «parola pomeridiana») con il suo dolore per qualcosa che hai perso, senza la certezza di averlo mai avuto. E poi: soltanto di pomeriggio può accadere che il gallo canti in una corsia dell’ospedale di Pigarov – magica traccia sonora che regala un breve, dolce sogno.

Diana A. Politano

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