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Nel guscio è il libro fortemente atteso di Ian McEwan, in cui l’autore inglese torna a tratteggiare squarci di contemporaneità dalle pagine di un romanzo raffinato, brillante, filosofico. Servendosi della singolare prospettiva e del punto di vista scevro da responsabilità di un nascituro vicino alla nascita (fisiologicamente costretto a stare a testa in giù nell’utero materno, al buio, impotente eppur così acutamente onnisciente), McEwan ci racconta di un omicidio orrendo: quello perpetrato da Trudy e Claude (rispettivamente la madre e lo zio del feto-narratore) ai danni di John, povero e sconosciuto poeta, padre del bimbo.

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Una trama che gioca con l’illustre precedente shakespeariano dell’Amleto, richiamandone la medesima fattispecie delittuosa e soprattutto quella condizione di chiusura nel guscio (amniotico, qui) che non è tuttavia di ostacolo al vagheggiamento di mondi infiniti mai visti e che, d’altra parte, non protegge da incubi tanto più terribili perché reali. La coscienza del bambino – così informata sui fatti del presente e sulle possibilità della vita, benché manchi di qualunque esperienza (tutto merito della mamma che «quando non sta insieme al suo amico Claude, ama la radio e predilige i dibattiti alla musica») – rappresenta per McEwan un dispositivo letterario per riflettere sul nostro mondo, sul mistero del sentimento amoroso (che non premia mai i buoni ma è puro azzardo, scommessa, sfida), sull’importanza di scegliere se essere o non essere. Ed è verso questa scelta che converge la storia: al termine del romanzo (che è un giallo atipico, tragico e comico al tempo stesso, in cui non v’è da scoprire chi sia l’assassino, bensì unicamente se pagherà per il crimine commesso), sarà il saggio e disincantato nascituro a rompere gli indugi e a fare la sua, di scelta, cambiando segno a un finale troppo facile e disponendosi a scorgere con i propri occhi il senso di ogni cosa oltre il guscio.

di Diana A. Politano

 




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