Il campanile del Duomo di Lecce: in volo sulla bellezza – di Sebastiano Coletta

(foto 1: Piazza del Duomo. Foto Sebastiano Coletta)

Uno stupore sconvolgente che l’arte e la fede rendono eterno spettacolo di pietra e di luce. Un “punto esclamativo, uno squillo intonato verso il cielo”, come il giornalista Ernesto Alvino ebbe a definire il campanile del Duomo di Lecce nella sua appassionante guida della “città inconsueta”, che non smette mai d’incantare per la sua bellezza. Ne era convinto anche lo scrittore francese Paul Bourget, che, durante un viaggio in Italia, rimase colpito dall’esuberanza del barocco leccese a tal punto da ricordare la città nel suo “Sensations d’Italie”. Il gigante ambrato che, da quasi quattro secoli, veglia sul capoluogo salentino, da alcuni giorni è percorso all’interno da un ascensore che porta i visitatori a più di quaranta metri d’altezza per godere di una vista panoramica mozzafiato. Che si arrivi da via Vittorio Emanuele II, da via Libertini o da via Palmieri, la piazza del Duomo riserva un colpo d’occhio prospettico unico al mondo: ci si sente osservati dai sei propilei che controllano l’ingresso e sostituiscono una poderosa cancellata che, di notte, chiudeva al pubblico l’acropoli cittadina. Sei dottori della Chiesa che, da due “palchi teatrali” barocchi, proteggono idealmente la fede dalle correnti eretiche. Recita una scritta in latino: “Fu aperto un ingresso più libero ed elegante del tempio principale con portici ornamentali in modo più conveniente a un accesso più agevole da proteggere rispetto alle soglie sbarrate da sacri baluardi”. Entrando, si resta abbagliati dallo straordinario fascino della piazza, che quasi inghiotte il visitatore, esempio mirabile dell’arte barocca di cui Lecce è indiscutibilmente regina. Ma cosa c’era prima del 1658? Basandoci sulle incisioni d’epoca e sulle fonti, sappiamo di una piazza molto più austera e spoglia, con l’antica cattedrale romanica di Santa Maria Assunta. In realtà già nel 1114 la cattedrale era stata ricostruita dal vescovo Formoso, in seguito completata – come riporta il Beatillo nella sua “Historia” di Sant’Irene (fino al 1656 “Lupiensium patrona”) – con un campanile che doveva riprendere, almeno in parte, le forme della torre di Salonicco dove sarebbe stata rinchiusa Penelope, figlia di Licinio, poi convertitasi al cristianesimo col nome di Irene. Il complesso crollò nel 1230, per essere poi ricostruito dal vescovo dell’epoca, Roberto I Voltorico. Ma, nella metà del ‘600, la cattedrale era ormai inadeguata e versava in pessime condizioni. Era il 1656 quando un evento turbò violentemente la serenità pubblica: lo scoppio di una pestilenza nel Regno di Napoli, che si diffuse rapidamente anche in Puglia. Stranamente l’epidemia non ebbe conseguenze rovinose in Terra d’Otranto, cosicché i leccesi gridarono al miracolo, attribuendolo a Sant’Oronzo, secondo la tradizione primo vescovo di Lecce. Erano gli anni di monsignor Luigi Pappacoda, di certo non un pastore secondo l’accezione evangelica del termine, ma una persona di grandissima raffinatezza e intelligenza. Fu lui a decidere l’abbattimento dell’antica cattedrale romanica e del campanile, in favore di un complesso sfarzoso ed elegante che rispondesse alle nuove esigenze artistiche e liturgiche e gli desse gloria nei tempi avvenire. I lavori furono affidati a un salentino “figlio d’arte”, Giuseppe Zimbalo, che immaginò una piazza chiusa, dove ogni elemento fosse incastonato sapientemente nella scala prospettica che avrebbe fatto il resto. Della piazza colpisce subito l’elegante e cesellata facciata del Duomo: trae in inganno il visitatore, che, entrando per quella che crede essere la facciata principale, si ritrova nella navata laterale destra della cattedrale. E’ la geniale intuizione dello “Zimbarieddhu”: per sfruttare al meglio le dimensioni del suolo, egli crea una sorta di scenografia teatrale, per cui la spoglia e manieristica facciata principale, che fiancheggia l’Episcopio, è messa in secondo piano rispetto alla ricca facciata laterale, protagonista assoluta della scena. L’interno, a croce latina, si compone di tre navate ed è sormontato da un soffitto ligneo a lacunari intagliati, che ospita quattro tele di Giuseppe da Brindisi. Ben dodici sono gli altari laterali presenti nella chiesa, oltre a numerose opere pittoriche di Domenico Catalano, Giovanni Andrea Coppola, Serafino Elmo, Gianserio Strafella e Oronzo Tiso. A quest’ultimo si deve la luminosa tela dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, sotto cui si eleva l’altare maggiore in marmo e bronzo dorato. Alla seconda metà del ‘700 risale, invece, il coro in legno di noce che impreziosisce il presbiterio.

(Foto 2: Il campanile e la facciata principale. Foto S. C.)

 Ed eccoci tornati al campanile, completato, come da epigrafe, nel 1682, dopo essere in parte crollato (si racconta che Zimbalo passò i guai a causa di quel crollo). Una straordinaria sfida alla statica, segno dell’ambizione umana più forte di ogni limite. Salendo lentamente, sembra di ripercorrere, metro dopo metro, la lunghissima storia della città, dalla fondazione leggendaria a opera del principe Malennio, discendente di Minosse, all’epoca imperiale romana, in cui Lupiae assunse una notevole importanza con la costruzione di un impianto termale, di un teatro e di un anfiteatro, fino al medioevo e al primo rinascimento di Maria d’Enghien e degli Orsini del Balzo. La vista che ci appare dal terz’ordine del campanile è senza dubbio suggestiva.

(Foto 3: Dal campanile, il palazzo del Seminario. Foto S. C.)

Di fronte, il palazzo del Seminario, armonioso e solenne, commissionato a Giuseppe Cino da due vescovi della famiglia Pignatelli, Michele e, successivamente, Fabrizio, che volle aggiungere un terzo piano (si nota la differenza con i primi due) per ingrandire l’edificio. Sembra di volare sulla città, soffermandosi sulle terrazze dei palazzi nobiliari: per citarne alcuni, palazzo Turrisi-Palumbo, palazzo Bernardini, palazzo Rolli, palazzo Balsamo, palazzo Palmieri. Si vede la sobria e luminosa chiesa di Sant’Irene con l’adiacente convento dei teatini che la reggevano. La straordinaria somiglianza della facciata con la chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, è dovuta alla mano di chi ha progettato entrambi i templi: il frate Teatino Francesco Grimaldi. In lontananza campeggia la superba facciata di Santa Croce, la chiesa dei celestini, iniziata in epoca tardo-rinascimentale e completata nel ‘600, che si compone di due ordini racchiudendo in sé diverse poetiche che trovano armonia suprema nel grande rosone ricamato. Un sogno ad occhi aperti. La facciata raffigurerebbe allegoricamente la vittoria dell’Occidente sugli ottomani nella Battaglia di Lepanto, del 1571, l’ultimo grande conflitto islamico-cristiano.

(Foto 4: Dal campanile, le chiesa di Sant’Irene e Santa Croce. Foto S. C.)

Arriviamo con lo sguardo in piazza Sant’Oronzo, dove antico e moderno si fondono insieme in un effetto di notevole impatto. I resti dell’anfiteatro, scoperto da Cosimo De Giorgi a inizio ‘900 e riportato alla luce per un terzo della sua struttura in epoca fascista, sono l’allegoria dell’antico impero romano che si unisce al nuovo, quello mussoliniano, emblematizzato nel razionale palazzo dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni che abbraccia l’anfiteatro. Non è affatto pindarico un parallelismo con il Palazzo Comunale di Siena, del quale il nostro riprende in forma stilizzata, mutatis mutandis, le linee e la solidità.

(Foto 5: Antico e moderno s’incrociano. Foto S. C.)

La chiesa di Santa Maria della Grazia, che spunta silenziosa da dietro al palazzo dell’INA osservato dal campanile, avrebbe dovuto essere demolita per riportare interamente alla luce l’anfiteatro, ma in extremis il vescovo Alberto Costa riuscì a scongiurarne l’abbattimento.

(Foto 6: La chiesa di Santa Maria della Grazia. Foto S. C.)

Ancora, si vedono: la bella facciata di San Matteo, modellata sui disegni di Achille Larducci di Salò, che riprende fedelmente quella di San Carlo alle Quattro Fontane (o San Carlino), a Roma; prima ancora, la facciata e la sgargiante cupola maiolicata del Carmine progettata da Giuseppe Cino.

(Foto 7: Dal campanile, il tetto del Duomo e la chiesa del Carmine. Foto S. C.)

Oltre alla bellezza, è il popolo di Lecce, i cartapestai, gli artigiani, i contadini, il vero protagonista della visita al campanile, con gli edifici semplici e bianchi che la vista dall’alto livella ai palazzi nobiliari e alle chiese, a significare che Dio, al nostro contrario, non fa distinzioni tra gli esseri umani. In lontananza, guardando verso est, si scorge il litorale adriatico, con le marine di Torre Chianca, Frigole e San Cataldo. Certamente, nelle giornate più limpide, emergeranno maestosi i monti innevati dell’Albania, così vicini da poterli sfiorare con un dito. Certo, al giudizio empirico segue sempre quello critico. La Lecce barocca, contrariamente ad altre città d’arte come Firenze o Roma, è stata concepita per essere ammirata dal basso verso l’alto. L’infinita suggestione dei suoi monumenti viene quasi del tutto annullata dall’altezza, che non permette di scorgere i dettagli, le forme, i colori e gli intrecci, mostrando una sequenza di terrazze, alcune delle quali misere e impresentabili. Forse Zimbalo e Pappacoda non avrebbero approvato che si violasse la sacralità della loro piazza per osservarla da una prospettiva che non le rende affatto giustizia. Un unico appunto: in un’epoca che intende valorizzare l’arte, rendendola accessibile a tutti, il costo della visita, pari a 12 euro a persona, sommato a quello previsto per accedere alle cinque chiese maggiori della città, ci è parso lievemente eccessivo. Comprendiamo gli sforzi, anche economici, della cooperativa sociale ArtWork nell’aver realizzato un’opera notevole, qual è l’ascensore del campanile. Una giusta regolarizzazione del turismo non deve, però, essere confusa con un’eccessiva speculazione (ormai dilagante in Puglia), soprattutto se parliamo di edifici sacri. Il rischio di farne templi di Salomone è alto. Soprattutto ci si allontana da un’idea democratica e inclusiva del turismo, per una piuttosto elitaria. Ma siamo convinti delle ottime intenzioni della Cooperativa e dell’Arcidiocesi di Lecce e ci auguriamo che molti siano i visitatori che sceglieranno di salire sul campanile del Duomo per fare un’esperienza nuova e singolare. Alto più di settanta metri, si staglia in tutta la sua imponenza verso il cielo di Puglia ed è visibile da ogni punto della città, che protegge come un padre amorevole. Scorgerlo in lontananza, quando si arriva a Lecce, riempie il cuore di gioia, quando si va via, di speranza: sai che è lì e ti aspetterà sempre. Una preghiera di pietra che piace pensare commuova persino Dio.

Sebastiano Coletta 

(Foto 8: Il campanile visto dal teatro romano. Foto S. C.)

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1 COMMENTO

  1. Una descrizione ineccepibile che fa venire tanta voglia di andare a visitare e ammirare tanta bellezza. Bravissimo, Sebastiano