Giusy Frallonardo debutta al Teatro Piccinni con “Ternitti” – di Sebastiano Coletta

Le lacrime, al Sud, hanno il sapore del mare che s’infrange sugli scogli, dando voce alla sofferenza, ai sacrifici, alle speranze di chi è costretto a lasciare la propria casa in cerca di un lavoro e di una nuova identità. “Ternitti”, andato in scena con successo sabato scorso al Teatro “Piccinni” di Bari, è, in fondo, l’eco di quanti, negli anni, sono saliti su un treno che segnava il confine del proprio paese, del piccolo mondo arcaico-rurale che conoscevano, fatto di valori indelebili, per dare un futuro alla propria famiglia. Domenica (Mimì) Orlando, interpretata da un’intensa Giusy Frallonardo, è la figlia di un operaio salentino che, a soli 15 anni, l’aveva strappata alla propria terra per portarla con sé in Svizzera a lavorare l’eternit. O, come dicono nel Capo di Leuca, “Lu ternitti”.

Si pensava fosse davvero eterno, capace di resistere anche alle condizioni climatiche più avverse. A essere mortali, però, erano gli uomini che lo lavoravano, costretti a respirare per anni i fumi delle fabbriche e quella polvere di amianto che sembra talco, ma ha il profumo della morte. Nel 2011 Mario Desiati, con “Ternitti”, da cui l’atto unico è tratto, aveva cercato di raccontare la storia poco conosciuta di un’Italia che “sceglie” di sacrificare gli uomini del Sud, mandandoli inconsapevolmente a morire nelle industrie di amianto, con la promessa di una ricchezza che non basterà per pagarsi le cure – peraltro inutili – contro il mesotelioma.

Eppure in quella fabbrica svizzera dove il padre lavora, la giovane Mimì conosce l’amore di Ippazio, anche lui operaio. Da quel sentimento fugace quanto forte nasce Arianna, sul palco Magda Marrone, che, anni più tardi, decide di studiare medicina per distaccarsi dall’ideale verghiano dell’ “ostrica”, secondo il quale chi nasce in una condizione sociale ha da restarci per tutta la vita, insieme alle generazioni successive. Ma il progresso snatura ogni rapporto umano: visto da lontano è meraviglioso, ma porta con sé lo sconforto di chi ha barattato la propria identità, perdendola.

Mimì è una donna sola che, tornata nella sua terra, si ritrova a lavorare in un cravattificio e a difendere strenuamente, dal tetto, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori contro la smania di progresso e quegli interessi economici che causano inevitabilmente lo spostamento delle industrie in altri Paesi dove produrre costa meno. E, a farne le spese, sono sempre gli operai, specie quelli del Meridione, visto come una terra senza speranza, dove la risorsa umana può essere impiegata senza troppi scrupoli.

Il dialogo tormentato tra Giusy Frallonardo e Magda Marrone, che cerca disperatamente il padre, è lo scontro tra due diverse visioni del mondo, accomunate da un senso di vuoto che toglie il respiro. Evocativa la lingua di Mimì, un misto tra italiano e salentino, che denota l’encomiabile impegno della Frallonardo nel trasmettere delle sfumature forse a tratti poco comprensibili per il pubblico. Torna alla mente Eduardo De Filippo che rassicurava gli spettatori milanesi che, sebbene si parlasse in napoletano, le cose che si voleva loro capissero, le avrebbero intese perfettamente. Così è stato per il dramma che la Frallonardo ha coraggiosamente portato in una sala teatrale tra le più belle di Puglia, affiancata da una volenterosa e spontanea Magda Marrone, alla prima esperienza da co-protagonista, e da Maria Giaquinto, insostituibile voce dei “Radicanto” che, sempre presenti in scena, hanno curato l’accompagnamento musicale. L’intuizione scenica delle sedie appese al soffitto ci è parsa un’allusione a “Le voci di dentro” di Eduardo, il solco profondo che la vita lascia nei personaggi privati della maschera perbenista. Se nel 2015 Francesco Ghiaccio e Marco D’Amore avevano affrontato al cinema la tragedia dell’Eternit con “Un posto sicuro”, lo spettacolo chiaroscurale diretto da Enrico Romita è un grido di verità e riscatto che si affianca a quello del collega Alessandro Leogrande, scomparso il 26 novembre di cinque anni fa. Un grido che Mimì riassume con: «Tutti àne a turnare allu Capu». Tutti, prima o poi, devono tornare al Capo di Leuca, a quel mare che sa aspettare e, più di ogni altro, fa sentire a casa.

*Sebastiano Coletta*

(Foto di Maria Grazia Proietto)

CONDIVIDI

1 COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO