“Ghachar Ghochar” di Vivek Shanbhag

Per buona parte del romanzo di Vivek Shanbhag pare essere stato bandito ogni dato utile a stabilirne i confini temporali; d’altronde la storia di una famiglia contemporanea ricalca logiche, schemi e pensieri ugualmente antichi e futuri, slegati dal tempo e, per questo, universali. È il caso della famiglia di Bangalore che l’autore indiano racconta nel libro Ghachar Ghochar (Neri Pozza), la storia di un’ascesa economica e della (forse inevitabile) decadenza morale che coinvolge il giovane protagonista, sua moglie, i genitori, uno zio e una sorella – colti nel momento in cui godono di una ricchezza giunta rapida e inaspettata e assistono (se non con rarissime eccezioni) al dileguarsi delle  manifestazioni più autentiche della loro amorevole unione.

Perché in fondo ogni legame familiare porta in sé coniugazioni sfumate del verbo amare e i rapporti sono tutti «ghachar ghochar», ovvero ingarbugliati, contorti e insolubili (come il laccio alla sottoveste della novella sposa Anita, chela quale da piccola aveva coniato il neologismo che risulterà tanto prezioso alle orecchie del protagonista), ed è miseramente destinato al fallimento il tentativo di «mostrare i rapporti della (…) famiglia dall’interno»: il rischio è quello di rendere percepibile l’oscena banalità delle emozioni, e del male. «La felicità di una casa poggia su atti selettivi di cecità e sordità», eppure l’autore è capace di andare oltre ai limiti imposti dal dover essere ciechi e sordi, rendendoci partecipi di molte cose dell’India di oggi e, in particolare, di una famiglia che procede incerta tra tradizioni deprecabili e le lusinghe del consumismo, tra la memoria commossa di un tempo che non tornerà più e la ricerca di vie d’uscita.

Diana A. Politano

 

CONDIVIDI

LASCIA UN COMMENTO