Francesco Fisotti: maestro gelatiere e beatmaker, quando le passioni coesistono e funzionano

Se avete mai passeggiato per il borgo di Otranto, soprattutto durante la bella stagione, vi sarà capitato di incrociare Gelateria Fisotti: dopo l’odore di gelato che pervade le narici dei passanti, un altro senso viene spesso coinvolto, soprattutto l’udito dei più attenti.

È sicuramente qualche mix di Francesco Fisotti che, oltre ad avere due coni Gambero Rosso sul CV, possiede anche un’etichetta discografica nata nel 2018, Quattro Bambole Records.

“Io nasco come rapper/cantante raggamuffin alla fine degli anni ‘90. Poi ho cominciato a produrre beats hip hop con la formula del sampling, che consiste nel campionare parti di altri brani, di solito funk, soul, rieditandole e trasformandole in basi rap. Ho sviluppato così la mia collezione di dischi che negli anni è cresciuta sempre di più andando a toccare diversi generi, dal prog rock, alle soundtrack, alla musica elettronica e ambient.

Nel 2018 ho aperto l’etichetta e le prime uscite erano tutte dei dischi rap dei quali curavo tutte le produzioni. Col tempo, ho voluto aprire il ventaglio della proposta musicale dell’etichetta e ho iniziato io stesso, da artista, a produrre anche dischi di generi diversi.

Adesso, per alcune uscite, io sono presente anche artisticamente all’interno del prodotto, altre volte ne curo la produzione esecutiva e basta. Quando mi mandano le demo, scegliamo diverse tracce e insieme a tutto un giro di musicisti con cui io lavoro (chitarristi, bassisti, fiati, cantanti, voci ecc.) le arrangio, finalizzo e commercializzo il prodotto finale, esattamente quello che farebbe un produttore a tutti gli effetti. Invece, a volte capita che l’artista o il gruppo mi proponga un disco già finito e io artisticamente non faccio nulla, curo solo l’aspetto di produzione esecutiva.

Scegli tu chi produrre o gli artisti vengono a cercare la tua etichetta? Ti è mai capitato di rifiutare qualcuno che volesse affidarsi a te?

In alcuni casi c’è una stima precedente verso un artista e decidiamo di fare un disco insieme.

In altri casi mi capita di produrre dischi di gruppi nuovi come il caso degli Asakaira, il cui disco è uscito a gennaio. Ci siamo conosciuti tramite il mio ufficio stampa Bizarre Love Triangle.

Per quanto riguarda rifiutare qualcuno, sì, è successo. Ne capitano di ogni, anche di persone che mi scrivono senza neanche aver ascoltato il mio catalogo, senza avere nulla a che vedere a livello di stile con quello che è la nostra produzione. Quando la gente che mi manda un messaggio random per me è già un no. Quello che faccio deve avere senso a livello culturale, deve essere un mattoncino che si incastra bene nel monumento che sto cercando di costruire.

Avendomi parlato di catalogo, cerchi sempre qualcosa che si attiene a ciò che produci solitamente? C’è un filo conduttore?

Ispirandomi a delle etichette che sono molto eterogenee e sperimentali, come Stones Throw, Leaving, Warp, Jakarta, Bastard Jazz, Favorite, Periodica, quello che voglio fare è proporre qualcosa che non sia catalogata precisamente in un genere e in un circuito. Il filo conduttore c’è, ma non tutti riescono a capirlo: venendo dal mondo hip hop, dove si campiona di tutto, non ho limiti, se nel mio catalogo ancora non ho una band di rock progressivo è perché ancora non l’ho trovata, Mi piacerebbe, per esempio, produrre più jazz o anche qualcosa di world music.

Chi disegna le copertine? La grafica ha a che fare con il contenuto del disco?

Ogni genere musicale e ogni periodo storico hanno un’iconografia: quello che provo a fare è, da una parte, attenermi allo stile di quel genere, dall’altra di non cadere troppo negli stereotipi. Lavorando con grafici e illustratori, cerco di lasciarli liberi di esprimere il loro stile: lavoro da anni con Michelangelo Greco, Fabio Conti, Matteo Meta (che ha anche disegnato il logo della label), Alyona Nikolaeva.

Quanto i social e le piattaforme digitali influiscono, secondo te, nella diffusione di progetti come il tuo?

Io vengo da un’altra epoca, sia a livello anagrafico che di concezione e attitudine: per ogni cosa mi trovo sempre in mezzo a tradizione e contemporaneità e cerco di crearne un sunto.

Io, personalmente, chiuderei Spotify da domani. Anch’io lo pago, sono un abbonato, salvo le mie canzoni lì, ma quella comodità di avere tutto e subito non ti fa concentrare su niente. Ti ritrovi davanti talmente tanti contenuti che non riesci ad apprezzare nulla, Anche per quanto riguarda i social, io tornerei ai vecchi metodi: vado al negozio di dischi, trovo un disco, lo ascolto, mi piace, lo compro. Oppure, ancora, vado in un evento, la gente si incontra, si conosce. Tutto dal vivo, come si faceva una volta. C’è un rapporto di odio e amore con la tecnologia, ma purtroppo queste sono le regole del gioco e bisogna usarle.

Il primo disco che hai comprato e quello che ti ha cambiato la vita.

Domanda difficile. Ho quasi 40 anni, la vita mi è stata cambiata tante volte. Sicuramente il primo disco è stato Comu Na Petra dei Sud Sound System, del 1996. Avevo 10 anni, è stato il mio primo concerto. Poi citerei Enter the Wu-Tang dei Wu-Tang Clan, Donuts di J Dilla, Gentle Giant dei Gentle Giant, Cinque Bambole per la luna d’agosto di Piero Umiliani, Tropeau Bleu dei Cortex, Plantasia di Mort Garson, Sunlight di Herbie Hancock, Black Focus di Yussef Kamaal, tanti altri.

Aurora Lezzi

 

CONDIVIDI

LASCIA UN COMMENTO