Presentato al Salone del Libro di Torino “Il Grande Sogno”, il volume autobiografico che ripercorre la carriera del fondatore del gruppo Netweek.
Un racconto autentico, lontano dai toni celebrativi, che restituisce l’immagine concreta di un imprenditore capace di trasformare un’intuizione adolescenziale in un sistema editoriale nazionale. È questa l’anima de “Il Grande Sogno. Il ragazzo che sognava la televisione”, il libro autobiografico di Gianfranco Sciscione, presentato lo scorso 15 maggio in occasione dell’inaugurazione del Salone Internazionale del Libro di Torino.
Scritto in collaborazione con l’attore Piermaria Cecchini, il volume attraversa 47 anni di attività nel settore televisivo, tracciando un percorso fatto di passione, sacrificio e visione imprenditoriale. Più che un’autobiografia convenzionale, si configura come una testimonianza personale e professionale, arricchita da riflessioni intime ed episodi emblematici, raccontati anche attraverso le voci di coloro che hanno accompagnato Sciscione nel suo cammino.
La presentazione si è svolta presso lo spazio dedicato ai Consulenti del Lavoro all’interno dell’Oval del Lingotto. A condurre l’incontro Giovanni Firera, presidente di Unsic Piemonte, affiancato da Luciano Moggi e Fabrizio Bontempo, che hanno dialogato con l’autore ripercorrendo le tappe più significative della sua carriera.
Il viaggio di Sciscione nel mondo della televisione inizia nel 1978 con la fondazione di Telemontegiove, piccola emittente locale nata a Terracina. Da quel primo esperimento, nel tempo, è nato il gruppo Netweek, oggi presente sull’intero territorio nazionale con 25 canali televisivi, 51 testate cartacee e 48 portali online. Un ecosistema mediatico in continua evoluzione, che ha saputo conservare un forte legame con i territori d’origine pur aprendosi a collaborazioni con il cinema e a investimenti tecnologici.
Il libro ripercorre anche la parabola di crescita del gruppo, che da Latina si è progressivamente esteso verso Frosinone e poi al resto d’Italia, dando vita a realtà come Quarta Rete, Italia 9 Network, Alma TV, Donna TV e Travel TV. Fondamentale anche l’espansione logistica e produttiva, con la nascita di studi televisivi a Roma, nel polo della Tiburtina, a Fiumicino e in città strategiche come Firenze.
Durante l’incontro torinese, non sono mancati momenti di riflessione sul valore del lavoro e della tenacia. In particolare, Luciano Moggi ha sottolineato come l’esperienza di Sciscione rappresenti un modello per le nuove generazioni, invitandole a credere nei propri progetti e ad affrontare le sfide con determinazione.
Tra i temi centrali del libro, anche il ruolo della famiglia. Sciscione ha ribadito l’importanza della condivisione del progetto imprenditoriale con i figli Marco, Giovanni e Italo – quest’ultimo avvocato e consulente del gruppo – sottolineando il valore della continuità e della coesione familiare nel portare avanti la visione originaria.
“Il Grande Sogno” si propone così come un racconto di formazione imprenditoriale, ma anche come un documento utile a comprendere l’evoluzione della televisione privata italiana dagli anni Settanta a oggi. Non una semplice narrazione nostalgica, ma la lucida testimonianza di chi ha saputo leggere i cambiamenti del mercato, reinventarsi e crescere restando fedele a un’idea.
Il volume si inserisce nel panorama editoriale come una delle poche narrazioni organiche di un’esperienza imprenditoriale nel mondo dei media, offrendo uno spaccato del Paese attraverso lo sguardo di chi lo ha raccontato per quasi mezzo secolo. Una lezione di perseveranza, visione e concretezza.
Intervista…
Il suo libro si intitola “Il Grande Sogno”. Che cos’era, esattamente, questo sogno?
Era l’idea, nata da ragazzo, di portare la televisione nelle case della mia comunità. All’epoca sembrava una follia, ma io ci credevo profondamente. Non era solo un sogno personale: volevo creare uno spazio d’informazione e intrattenimento che parlasse davvero alla gente, nei loro linguaggi, nei loro contesti.
Il libro racconta 47 anni di carriera. Se dovesse indicare il momento più difficile, quale sceglierebbe?
Senza dubbio i primi anni. Non c’erano risorse, né certezze. Ogni passo era una scommessa. Ma anche nei momenti di crisi economica o di transizione tecnologica, come il passaggio al digitale terrestre, abbiamo dovuto reinventarci. La difficoltà più grande, però, è sempre stata mantenere la coerenza con la nostra identità.
Cosa significa oggi fare televisione in Italia?
Significa affrontare una sfida complessa. I modelli di consumo sono cambiati radicalmente. Tuttavia, se si mantiene una forte connessione con i territori e si investe nella qualità dei contenuti, c’è ancora un grande spazio. La televisione può evolversi senza snaturarsi.
Nel libro emerge una forte attenzione alla dimensione umana. Quanto ha contato la famiglia nel suo percorso?
È stata tutto. Senza il supporto, la presenza e il coinvolgimento della mia famiglia non avrei costruito nulla di solido. I miei figli oggi lavorano nel gruppo, e questo rappresenta non solo un traguardo, ma anche una responsabilità condivisa. È una continuità che dà senso al nostro lavoro.
La televisione privata ha vissuto una rivoluzione dagli anni ’70 ad oggi. Qual è stato, secondo lei, il vero punto di svolta?
L’apertura del mercato e l’ingresso delle emittenti locali hanno creato una concorrenza sana e un’offerta più variegata. Ma il vero punto di svolta è stato il passaggio da un modello centralizzato a uno reticolare, in cui la forza stava nella rete di realtà locali coordinate tra loro. È lì che abbiamo investito.
Cosa vuole trasmettere con questo libro alle nuove generazioni?
Vorrei che capissero che i sogni si realizzano solo attraverso l’impegno quotidiano, la fatica, i sacrifici. Non esiste un successo improvviso. E vorrei anche mostrare che è possibile fare impresa in Italia restando fedeli ai propri valori, senza scorciatoie.
Quanto conta oggi, secondo lei, il radicamento territoriale in un sistema mediatico digitale e globalizzato?
Conta moltissimo. In un mondo dove tutto è connesso, la vera differenza la fa chi riesce a restare vicino alle persone, a raccontare la vita reale. Il digitale è un mezzo, ma il contenuto resta locale: è questo che crea fiducia e relazione.
Ha ancora un sogno da inseguire?
Sempre. I sogni non finiscono mai, cambiano forma. Oggi il mio sogno è lasciare un’eredità solida, costruita su un’idea di comunicazione etica, accessibile, utile. E continuare a innovare senza perdere la nostra identità.
Dai sogni alla realtà: Sciscione come Disney, architetti di visioni diventate sistemi…
C’è una linea invisibile che unisce i grandi costruttori di sogni: non è fatta di genio creativo soltanto, ma di ostinazione, fatica, disciplina. Gianfranco Sciscione e Walt Disney, pur in contesti storici e culturali diversissimi, sono figure che incarnano lo stesso archetipo: l’uomo che ha saputo vedere ciò che ancora non esisteva e ha avuto il coraggio — e il metodo — per renderlo concreto.
Disney partì da un garage e da un topolino disegnato su un foglio; Sciscione da una piccola emittente di provincia con mezzi ridottissimi. Entrambi hanno dato forma a mondi alternativi, costruendo strutture che andavano ben oltre il prodotto iniziale. Non si sono limitati a fare “televisione” o “cartoni animati”: hanno creato ecosistemi, linguaggi, esperienze capaci di parlare al cuore delle persone.
Quello che li accomuna non è solo l’ambizione visionaria, ma la capacità di rendere scalabile un sogno. Di organizzarlo. Di farne impresa, senza snaturarne la poetica. Hanno intuito che un’idea vale solo se sa camminare da sola, parlare a molti, resistere al tempo.
C’è poi un altro aspetto che li lega: entrambi hanno compreso che dietro ogni macchina narrativa — sia essa un canale televisivo o un parco a tema — deve esserci una relazione emotiva. Disney costruì mondi che facevano sognare; Sciscione ha costruito reti che parlavano al vissuto quotidiano degli italiani. Due facce della stessa moneta: la narrazione come forma di radicamento culturale.
E forse è proprio questo il segreto che li unisce: la capacità di rendere il sogno non un’evasione, ma un luogo da abitare. Un’utopia che diventa impresa. Un progetto che parte dal sé per arrivare agli altri. Entrambi, in fondo, hanno fatto lo stesso mestiere: hanno creduto in qualcosa prima che fosse visibile. E ci hanno costruito sopra un mondo.
Ilaria Solazzo