“Con questa riforma costituzionale, fatta all’epoca, ci saremmo ritrovati il rigassificatore: ecco perché”

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BRINDISI – SI o NO? La verità è che la medicina da inoculare, seppur necessaria per posizionare il Paese al passo con i tempi, rischia di risultare oltremodo amara. Iniziamo dai dati positivi. Il superamento del bicameralismo perfetto, auspicato da decenni da un fronte trasversale che va da D’Alema a Berlusconi, permetterebbe all’Italia di acquisire quell’agilità necessaria per provare a mettere in moto una nave anchilosata al fondo da troppi lustri. Il mondo è cambiato ed i nostalgici devono capire che non è più possibile restare ancorati alle logiche sottese al sistema proporzionale o al bicameralismo perfetto, le quali vedevano nella massima condivisione di ogni scelta l’antidoto al regime totalitario del quale ci si era appena liberati. Oggi, in un periodo storico in cui la crisi economica morde le natiche di milioni di persone ed in cui l’economia e l’UE scandiscono le leggi della politica, non è più differibile dotarsi di un procedimento legislativo snello, in linea con quello adottato da tutte le maggiori nazioni occidentali, che possa permettere di produrre quelle riforme atte a superare la situazione di stallo in cui si ritrova l’Italia. Ecco quindi che, seppur tutto sia perfettibile, appaiono intrise di ragionevolezza gran parte delle novità introdotte dalla riforma costituzionale. Il pacchetto introdotto dal Governo Renzi, di fatto, toglie al Senato il potere di legislazione ordinaria, con ciò eliminando l’anacronistico e ridondante effetto navetta che allungava all’infinito i tempi di approvazione di talune leggi. In combinato disposto il Governo, al fine di non sottrarre valenza e consistenza alla discussione parlamentare, ha introdotto norme ancor più cogenti per la decretazione d’urgenza, consentendola solo nei casi in cui sia immediatamente applicabile ed in quelli tassativamente previsti, precludendo così la possibilità di introdurre disposizioni non attinenti ed omogenee con il titolo del Decreto. A questo si aggiunge la novità del procedimento legislativo a data certa, secondo il quale il Governo può indicare alla Camera quei disegni di legge di particolare importanza per i quali, in via prioritaria, si debba arrivare ad approvazione entro 70 giorni. Queste due disposizioni dovrebbero astrattamente garantire un maggiore potere legislativo del Parlamento ed un correlato minore interventismo dell’esecutivo, smorzando pertanto le preoccupazioni di una deriva autoritaria. Tra i vari contrappesi previsti vi è inoltre quello inerente la democrazia diretta: i cittadini, infatti, se dovessero riuscire a raccogliere 800.000 firme (a fronte delle attuali 500.000 richieste) per la proposizione di un referendum abrogativo, non dovrebbero più scontrarsi con lo scoglio del raggiungimento, ai fini della validità dello stesso, del quorum del 50% degli aventi diritto, poiché basterebbe il 50% dei votanti per ottenere l’abrogazione della legge. Per intenderci, questa previsione avrebbe permesso di abrogare la legge che prevedeva la prosecuzione delle trivellazioni nei nostri mari.
Se la forma di governo consegnataci manterrà pressoché invariato l’equilibrio democratico ante-riforma costituzionale, dove si nasconde allora il rischio di deriva autoritaria? E’ presto detto: nella nuova ripartizione di competenze tra Stato e Regioni. Ricorderete la querelle di qualche mese fa riguardante il Decreto Sblocca Italia secondo il quale, per le opere indicate dal Governo come “d’interesse nazionale”, era possibile aggirare l’ostacolo della previa intesa da raggiungere con le regioni. La disposizione, infatti, prevedeva che qualora una Regione fosse stata contraria ad un’opera ritenuta d’interesse nazionale, il Governo avrebbe potuto avocare a sé il potere di adottare il provvedimento legislativo in spregio della volontà delle autonomie locali. Tale “clausola di supremazia”, tuttavia, a seguito di un conflitto di attribuzione sollevato dalle regioni, fu soggetto a declaratoria d’incostituzionalità, in quanto nelle materie di competenza concorrente la Corte Costituzionale ha sempre concluso per la necessità della previa intesa tra Governo statale e Governo regionale, in ottemperanza al principio della leale collaborazione. Il Governo, difatti, per non incorrere in tale vizio, fu costretto a derubricare le operazioni di trivellazioni, fatte ricadere in un primo momento sotto la nomenclatura “d’interesse nazionale”.
Cosa succede adesso con la riforma costituzionale? Di fatto il Governo ha costituzionalizzato quanto prevedeva il Decreto Sblocca Italia, al fine di non veder più irretita la sua azione dallo spauracchio del conflitto di attribuzione. Il Governo, pertanto, ha emendato l’art. 117 della Costituzione, sottraendo gran parte delle materie alla legislazione concorrente per ricondurle sotto la sua competenza esclusiva. Con tale operazione il Governo non sarà più costretto a fare i conti con la volontà delle autonomie locali e regionali, potendo ad esempio disporre autonomamente su materie delicate come la produzione di energia, la realizzazione di grandi opere infrastrutturali. Se non bastasse tutto questo, è stata introdotta una clausola di supremazia, la quale prevede che anche nelle materia nelle quali il Governo non abbia competenza esclusiva, se vi è un (fumoso ed arbitrario) “interesse all’unità giuridica ed economica dello Stato”, il Governo può sostituirsi al potere legislativo regionale. In realtà la riforma costituzionale non s’inventa nulla. Semplicemente applica l’art. 120 della Costituzione, il quale ha il suo fondamento nell’art. 5 della stessa, dove tra i principi fondamentali della Prima Parte troviamo quello “dell’unità ed indivisibilità della Repubblica”. Viepiù: prima della riforma costituzionale del 2001 ogni Regione poteva legiferare purché non entrasse in contrasto con “l’interesse nazionale”. Tale previsione è stata eliminata dalla suddetta riforma per poi essere ripresa da quella attuale, al fine di giustificare interventi statali “potestativi” atti a svilire e mortificare la possibilità di autodeterminazione delle comunità locali.
Cosa c’entra Brindisi con tutto questo? Facile dedurlo, basti pensare alla sfilza di impianti che hanno violentato il nostro territorio ed ai (ri)correnti tentativi perpetrati a discapito di una comunità priva degli anticorpi necessari per affrontare tali assalti. Ecco allora correre un brivido lungo la schiena davanti al pensiero di ciò che sarebbe accaduto se, nel periodo in cui Berlusconi spingeva fortemente per il Rigassificatore a Brindisi, ci fosse stata la Costituzione che siamo chiamati a valutare. Probabilmente nulla avrebbero potuto Mennitti, Errico e Vendola, così come nulla potremmo davanti alle potenziali scelte unilaterali del Governo sulle trivellazioni in Adriatico (al largo di Brindisi è già presente la piattaforma petrolifera Aquila 2) o su qualsiasi altra opera ritenuta dal Governo di turno come “strategica”. Quali tutele avremmo allora, quali le garanzie che in futuro non ritornino scelte d’interesse nazionale come quelle che hanno giustificato l’insediamento del petrolchimico, delle centrali a carbone e di tutto quanto di deleterio è nato sul nostro suolo?
Probabilmente l’attuale Governo dispone dell’auspicata dose di ragionevolezza per non attuare autonomamente e coercitivamente scelte gravanti sul futuro dei territori. In una nazione che ha osannato Mussolini e Berlusconi, però, può accadere che, a salire al potere, ci sia gente meno ragionevole, e allora sì che avrebbe gli strumenti per portare l’Italia verso una deriva autoritaria. Il mondo, frenetico come mai prima d’ora, ci impone di snellire le regole del gioco, di liberarci delle zavorre per non restare ai blocchi di partenza mentre gli altri corrono verso il futuro. Purtroppo, però, la storia ci ricorda chi siamo e rievoca vecchi fantasmi. Per iniziare a correre dobbiamo necessariamente allentare la camicia di forza; per non farci del male, però, forse non siamo pronti ad allentarla troppo. In un contemperamento d’interessi, la mia priorità è che l’Italia, in un modo o nell’altro, si attrezzi per provare a cambiare passo e restituire un futuro alla mia generazione. Questa riforma, per un verso, fornisce gli strumenti per provare a farlo e merita di conseguenza un atto di fede. D’altro canto, onestamente, in condizioni di stabilità e benessere, avrei propeso per il NO per non rischiare di rivivere dejà vu diabolici.

Andrea Pezzuto

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