Attenti alle sabbie mobili del linguaggio sciatto e banale – di Gabriele D’Amelj Melodia

Non c’è solo la banalità del male ma anche quella del parlare

Ci sono stilemi, vezzi idiomatici, paroline trendy che, ben triti e frullati dal mixer mediatico, arrivano dritti nelle scatole craniche della “ ggente “, insediandosi pericolosamente nei circuiti dell’elaborazione del pensiero e dell’espressione linguistica, orale e scritta. Il bombardamento di termini codificati e di frasi stereotipate causa danni devastanti e irreversibili al processo individuale di costruzione di forme espressive autonome figlie del proprio precipuo patrimonio culturale.

Il linguaggio si impoverisce, ridotto com’è a modelli standard preconfezionati, a tic linguistici, le parole perdono la loro forza semantica involvendo in un’oralità plastificata e la comunicazione diventa liquida, scialba, prevedibile e fatalmente banale. Le parole sono tutto meno che pietre. Intendiamoci, lo slang giovanile e quello popolare ci sono sempre stati, al pari della sacrosanta pratica del dialetto, ma un tempo si sapevano amministrare e gestire i registri linguistici a seconda del  contesto e dell’occasione, oggi invece si fa molta fatica a cambiare marcia passando dall’espressione colloquiale a quella ufficiale che regole e buon gusto imporrebbero in certi casi. Se un giovane va ad un  colloquio di lavoro deve esprimersi in un certo modo. Non deve dire né “ Okkei “ né “ Nu me sta bene no “. Un professore, quando fa lezione, deve avere rispetto di se stesso e degli alunni, e pertanto bandire dal suo vocabolario termini dialettali, semivolgarità fatte passare per spiritosaggini, espressioni modaiole. La forma è sostanza, aveva ragione don Benedetto Croce.

Molta colpa di questa deriva verso le limacciose sabbie mobili del linguaggio dalle quali poi è quasi impossibile venir fuori, è imputabile al gergo dei mass media, in primis a quello della rete, dei social. Lì è l’inghippo,that is the question. Lo smartphone è da tempo una protesi indispensabile al bisogno ( ansia ) di comunicazione continua. Ha, per dirla come quelli che parlano bene, una rassicurante funzione “ fatica “, di contatto. Il telefonino è il nostro ciuccetto, il nostro cuscino, che ci dà sicurezza e conforto. E va usato proprio con quel tipo di gergo social. “ Digito, ergo sum “. Che fare? Premesso che non si può non osservarlo, pena emarginazione,forse bisognerebbe sforzarsi di considerarlo una lingua parallela, da mettere in uso solo col cellulare, non dimenticando che c’è un a lingua altra, quella dell’ italiano corretto. Esattamente come succede per la lingua dei nostri padri, il vernacolo. Ci sono molte persone, per fortuna, che separano nettamente i due ambiti e, quando le circostanze impongono la lingua del bel paese dove il sì suona, dimenticano subito forme e persino inflessioni dell’amato dialetto. Insomma dobbiamo ricordarci di non essere sempre al bar o in chat e che l’esercizio antisciatteria è un dovere civico ed anche sociale. Non basta vestire con un certa eleganza e avere un’ auto elegante: anche la nostra favella ( e la nostra penna ) debbono esserlo.

Altro doloroso capitolo è quello che riguarda la lingua perversa di mamma TV. E’ vero che ci fu un tempo lontano in cui gli italiani impararono a parlare l’italiano grazie alla televisione, ma la storia si ripete sempre in maniera distorta e grottesca ed oggi, già da un pezzo, gli italiani disimparano la lingua di Padre Dante proprio grazie a quella diabolica vetrina domestica. E’ dal diabolico “ elettrodomestico “ visivo e parlante  che abbiamo imparato la neolingua, il pacchetto di termini lisi e abusati, le espressioni precotte,  perfezionando anche il nostro bagaglio di conoscenze turpiloquiali. Riflettiamo anche sul fatto che il “ parlar turpe “ è una scorciatoia  per eludere le fatiche del ragionamento, quando non un misera bile mezzuccio di captatio benevolentiae per un pubblico rozzo e plebeo, come accade nelle forzate, squallide performance dei due Vittori sboccati, Sgarbi e Feltri. Televisione “ Cattiva maestra “, diceva il filosofo Karl Popper già nei primi degli anni novanta, e aveva ragione da vendere.

 E davanti alle telecamere che si consumano i delitti più efferati contro la lingua italiana, che si compiono i riti più frustri della comunicazione verbale. Cascate di “ Attimini “, trionfi di persone “ solari “ che magari vivono in paesi “ ridenti “, stock di “ volani “ per far decollare l’economia, scaffali traboccanti di tempi “ reali “ (ma perché esistono tempi … irreali ?), di “ aperture di tavoli “ per confronti sindacali e/o politici (Il suolo patrio è diventato una gigantesca pizzeria), balle di dialoghi “ ampi e approfonditi “, proprio come “ ottimi e abbondanti “ erano i pasti preparato per le truppe, almeno secondo i rapporti degli ufficiali  ispettori. Insomma, c’è tanto di quel materiale-.paccottiglia da poter riscrivere una nuova edizione di quel “ Dizionario dei luoghi comuni “ compilato a metà dell’ottocento da quel genio di Gustave Flaubert.

 Le patologie del linguaggio sono molteplici e tutte in stato di preoccupante tendenza pandemica. Ci dobbiamo preoccupare e dare da fare per combattere il deleterio fenomeno? “ Assolutamente sì “. E se riuscissimo a trovare un antidoto e a fermare il morbo della lingua pazza, cosa esclameremmo in coro? “ Che meraviglia! “.

Eh, credo che sarà una lotta molto dura …

                                                                                         Gabriele D’Amelj Melodia

 

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