ANNIVERSARI NON SCONTATI DA RICORDARE – di Davide Gigliola

Prima di lasciare la Sicilia, dove vivevo per gli studi universitari, volli compiere una specie di pellegrinaggio laico nei luoghi delle stragi di mafia avvenute nel 1992. Prima di lasciare quella terra “magnifica e disgraziata”(cit. Paolo Borsellino)e indimenticabile, volli ripercorrere quelle strade che furono intrise di sangue innocente, con grande rispetto e gratitudine. Sentivo di non dover e poter lasciare l’isola senza prima esserestato testimone postumo dei drammatici fatti che segnarono la vita dell’intera Italia e in qualche modo anche della mia.

Scrivo in una data che non corrisponde a quelle divenute ormai memoria e simbolo e cioè il 23 maggio e il 19 luglio. Ho voluto scrivere questa mia riflessione quasi a metà delle due, quasi a unificarle,affinché ci sia la possibilità di riassumere il messaggio di entrambi i giudicisimbolouccisi dalla Mafia a Palermo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

30 anni esatti sono trascorsi da quell’inizio di ultimo decennio di millennio. Nel 1992 avevo appena 9 anni eppure il ricordo ènitido, forte, lucido, vissuto con gli occhi di bambino che vedeva negli occhi dei grandi la gravità di quello che era accaduto.

Ora che sono cresciuto vorrei provare a dire qualcosa su questi anniversari che vada aldilà dell’emozione o del ricordo nazionalpopolare e che sia libero dalla presunzione di possedere la verità. Perché in queste pagine di cronaca e di storia tanti e troppi sono i tasselli mancanti che ne impediscono una visione completa e nitida.

Sta di fatto che questi due uomini, insieme alla numerosa schiera di autentici servitori dello Stato assassinati, hanno avuto il coraggio di non compromettersi. Hanno preferito, per amore della giustizia e della verità, subire calunnie, ingiurie, cattiverie e isolamenti. Hanno prima di tutto fatto bene, con dedizione e passione il loro lavoro, perché ci credevano. Cosi come gli uomini e donne delle scorte che non si sottrassero al loro impegno lavorativo.

Volendo fare un analisi più ampia, va ricordato che questi uomini e donne lavoravano per la pubblica amministrazione, la grande e “complessa” macchina a servizio dei cittadini. All’apice della responsabilità e rappresentatività il giudice Borsellino scriveva: “a fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”. Affermazione questa che dice bene con quanto impegno si siano dedicati, con competenza e merito, alla “cosa pubblica” che è l’esatto opposto della visione vissuta da “cosa nostra”… Asserzioneche resta attuale e diventauno schiaffo per chi, sopratuttocome dipendente statale, ha trovato una fin troppo comoda e facile sistemazione, amaramente spesso senza merito, atta solo ad ingrassare e sbeffeggiare la collettività con il disimpegno e l’arrivismo…

A distanza di tre decenni, la memoria di quei fatti, dovrebbe destare non solo una forma di riconoscenza, ma soprattutto interrogare ognuno di noi, con le dovute differenza di ruolo e responsabilità, nella partecipazione alla vita del Paese. Certamente non volevano diventare eroi e noi oggi non possiamo ridurli a meri santini laici. L’Italia gli ha ormai dedicato strade, intitolato scuole, ha istituito la giornata nazionale della legalità (ogni 23 maggio), ma a che punto è la reale presa di coscienza dell’esempio consegnatoci? Nell’immediatezza dei fatti, i palermitani e non solo, esposero ai loro balconi lenzuola bianche, a significare la volontà di ribellarsi al dominio della malavita. Erano stanchi di essere identificati indistintamente tutti come mafiosi. Si urlava basta al sangue e alla collusione – non troppo celata – di una parte della classe dirigente e alla compiacenza di tanti, di troppi, abituati ormai ad essere omertosamente succubi di un modo di vivere sbagliato.

Nitidi anche in me sono i ricordi delle immagini dei funerali, dove lo sdegnò si tramutò in una rabbia furente, quasi incontenibile. Paradossalmente fa quasi “bene” rivedere oggi lo strazio di quei momenti: l’intervento della vedova dell’agente Schifani, le potenti parole del cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, tra gli ultimi baluardi di una Chiesa realmente profetica, che senza mezze misure chiedeva i nomi “degli esecutori e dei mandanti”, gli spintoni al Presidente della Repubblica e ai politici presenti additati se non come corresponsabili perlomeno come inadeguati. La morte aveva ridestato la volontà di riscatto, di vita stessa. Perché una vita schiava della paura non è vita.

Le atroce uccisioni  parevano interrompere le battaglie iniziate e troncarono la ferrea volontà di arginare i tentacoli del malaffare. Tentarono di sospendere e congelare quel vento di cambiamento che era iniziato e che coinvolgeva le coscienze dei più giovani già nelle scuole. L’investire su di loro era la strategia più giusta perché voleva dire sperare in un futuro diverso…

Con il trascorrere ormai di tanti anni, cosa è rimasto? No nella memoria collettiva, ma nella “traduzione” di quei sacrifici, di coloro che possiamo sconsolatamente definire “anomalie democratiche…”forse poco, visto l’andazzo e percependo l’astuzia del malaffare con la connivenza dei più. “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché solo quando una cosa la si ama la si può cambiare”, così diceva il giudice Borsellino e potremmo declinare questa stupenda affermazione con i nomi delle nostrecittà, del nostro posto di lavoro, con tutto ciò che vorremmo cambiare (migliorare) o almeno tentarci.  Non come coloro che diventatarono “amici” dei giudici antimafia dopo la loro morte, cavalcando l’onda emotiva  e facendo si di renderequasi innocuo il loro lavoro, trasformandoli troppo facilmente in santini ed eroi per caso. Dopo quei fatti che oggi ricordiamo, l’avviata trasformazione del sistema ha reso il paradosso di poter far dire anche da diversi politici collusi e malavitosi che: “la mafia è una montagna di merda” (cit. Peppino Impastato) come uno slogan senza alcun potere convincente e trasfigurante! Questo è il motivo per cui tutti noi, dovremmo interrogarci sulla reale presa di coscienza di quei sacrifici e con quanta ipocrita retorica venga pennellata la storia.

In conclusione, in questo legittimo sconforto, c’è ancora la speranza che il ricordo viva e diventi impegno concreto a prendere sul serio la vita e gli impegni quotidiani, costi quel che costi, appunto perché  i protagonisti non sono “cadaveri” o monumenti muti. Che il rispetto che come italiani dobbiamo a loro, divenga autentico soprattutto da parte dei governanti e auguriamoci divenga imitazione nella abnegazione e serietà.

La celebre foto dei due giudici, che abbiamo ormai impressa nell’anima collettiva, non sia solo una silenziosa immagine per lamemoria, ma si animi. Nel vedere l’atto di sussurrare all’orecchio del collega e dell’amico fidato, ci viene permesso quasi di ascoltare -distintamente – le parole del giudice Falcone, credendole rivolte a ciascuno di noi:“…vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Pensa…

 

Davide Gigliola

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2 COMMENTI

  1. Grazie di cuore. Riflessione profonda, stimolo ineludibile ad un serio esame di coscienza, insegnamento di altissimo valore morale. Grazie ancora. Ti abbraccio.