“E’ una malattia. La gente ha smesso di pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda mediocrità”.

Così sentenziava Richard Yates nel suo “Revolutionary road”, il romanzo degli anni cinquanta con il quale descrisse la visione cruda e reale delle contraddizioni di un paese preda della decadenza e del materialismo; alle prese con la ricerca di un futuro, di qualcosa di meglio da contrapporre alla quotidiana frustrazione di un sogno strappato; popolato da personaggi dilaniati dalla loro solitudine e disperatamente alla ricerca di una improbabile felicità.

Confesso che lo scrittore americano è stato, insieme a Jean Paul Sartre e Albert Camus, uno degli “eroi” delle inquietudini della mia prima giovinezza. Yates era convinto che «la maggior parte degli esseri umani è ineluttabilmente sola e la tragedia della loro vita è nascosta in loro stessi».

Tutto questo mi è tornato in mente (anche se ho dovuto un po’ rinfrescare la memoria) in questi giorni di convulsi contorsionismi sul destino del governo della Città.

Mentre sullo sfondo si stagliava una comunità sofferente e agonizzante, ho assistito in sequenza:

  1. all’onesta e dignitosa presa di distanza di alcuni consiglieri che – chiedendo scusa alla Città per gli errori commessi, cosa per niente scontata e per questo apprezzata – hanno deciso di mettere fine alla commedia di meschina mediocrità ormai in scena da mesi;
  2. all’impagabile pantomima di annunci sulle magnifiche sorti e progressive di una raccolta rifiuti per la quale non c’è ancora uno straccio di contratto (sempre che il TAR consenta di firmarlo);
  3. al tentativo di mobilitazione delle forze sane, che pure in questa Città esistono, per porre fine alla lenta agonia del nostro senso di comunità.

Sembrava che tutto stesse ricomponendosi seguendo ragionevoli traiettorie di buon senso quando – all’improvviso – la piccola, dannata, comoda mediocrità di cui è intrisa tanta parte della classe dirigente della città è riemersa in tutta la sua devastante forza distruttrice.

Già, perché improvvisamente sono riapparsi i candidati al ruolo di diciassettesimo uomo, funzione che nel corso degli ultimi quindici anni è stata variamente interpretata da molti e deludenti personaggi.

La novità questa volta sta nella precisione chirurgica del tentativo messo in atto dai candidati al ruolo di diciassettesimo uomo. Non un brutale ‘salto della quaglia’ per rimpolpare le esauste brigate maggioritarie: no, questo sarebbe volgare e inappropriato!

Niente di tutto ciò, quindi, ma molto di più e meglio: un pagherò, una cambiale al 25 febbraio con la quale tentare di disinnescare la scadenza elettorale della prossima primavera, una versione pecoreccia del “pronti contro termine” tanto cara ai promotori finanziari.

Non intendo neanche entrare nella perniciosa disputa sui tempi più consoni di un eventuale commissariamento dell’Amministrazione comunale.

Meno che mai intendo imbarcarmi in un’analisi dei risultati degli ultimi commissariamenti (lunghi e brevi) a cui è stata costretta la Città. Credo che tutti i brindisini abbiano ben presente quello che è successo sia nel 2012 e nel 2016.

A me – che sono di un’altra generazione – hanno sempre insegnato che il peggior Consiglio Comunale è comunque espressione della volontà popolare e per questo motivo è sempre preferibile al miglior Commissario straordinario.

Ma quelli erano tempi nei quali la politica contava ancora qualcosa, non era subalterna ai poteri finanziari e non era ancora esposta ai piccoli, gretti e infantili calcoli di convenienza.

C’era la passione, la voglia di cambiare e di migliorare le cose, di dare voce e protagonismo alla gente che lavora, si sacrifica e tira avanti la sua esistenza quotidiana, pur tra mille difficoltà.

Le battaglie si potevano vincere o perdere, ma se qualcuno barava rendendole impossibili ed impraticabili c’era un istituto – tanto nobile, quanto ormai poco frequentato – che conferiva dignità e autorevolezza ai protagonisti: le dimissioni.

Ma questa è davvero un’altra storia. Come diceva Totò: o siamo uomini o caporali

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