Il mito della mia gioventù: la sinistra di governo

Quando ero giovane ero fiero e mi vantavo di essere parte della “sinistra di governo”…

Non che ai tempi la cosa fosse facile, visto che l’idea più gentile era quella di paragonarci ai ravanelli, rossi fuori e bianchi dentro.

Trascuro di approfondire gli esiti di quella contrapposizione, le persecuzioni e il clima di pulizia etnica che ne seguì. Ormai la rabbia e il disgusto per quello che sono stato costretto a sopportare è sepolto sotto la coltre di oltre 25 anni di estenuanti esercizi filosofici, attraverso i quali sono pervenuto alla mia attuale condizione di atarassia.

Ne parlo quindi con il distacco della «perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione delle passioni».

Essere “sinistra di governo” in questo Paese è sempre stato un fatto tremendamente complicato, quasi schizofrenico perché deve tenere insieme il sogno e la realtà, la lotta e la responsabilità di governo.

Forse tutto questo è abbastanza comprensibile: la sinistra ha più facilità alla lotta che al governo, perché essa non è nata per amministrare ciò che esiste, ma per negarlo e progettare un volto nuovo del mondo. Per questo motivo, la critica minoritaria appartiene alla sinistra più che l’attitudine a gestire il governo, fino ad impantanarla regolarmente nelle sabbie mobili che separano il massimalismo dal riformismo.

In questo quadro problematico, a mio avviso, Renzi ha avuto il merito di aver tentato di tenere insieme i due aspetti del “dilemma cornuto”, coniugando visione e materialità, prospettiva e contingenza, sperimentando così un percorso inedito che aveva l’ambizione di ispirarsi al “partito di lotta e di governo” di berlingueriana memoria.

In sostanza, quello che Enrico Berlinguer aveva pensato per regolare la complicata fase delle “larghe intese” tra DC e PCI, è stato riproposto da Renzi all’interno del grande calderone del PD, divenuto nel frattempo il più grande partito italiano a vocazione maggioritaria.

L’epilogo è noto a tutti. Renzi ha commesso molti errori – alcuni dei quali riconosciuti da lui stesso – che gli sono stati fatali. Su un punto, però, i suoi meriti sono indiscutibili: aver consentito a una nuova generazione di diventare protagonista della vita politica del Paese.




Renzi ha rappresentato una sferzata di vitalità che ha calamitato speranze di cambiamento che hanno coinvolto anche chi – come me – aveva scarsa propensione verso il PD.

Con l’ascesa di Renzi alla guida del PD e poi del Governo, sembrava finalmente smentito il teorema dell’eredità politica negata, secondo il quale i figli – anziché ereditare il testimone dai padri – vengono osteggiati fino ad essere espulsi dagli stessi padri-padroni, incapaci di concepire un sereno tramonto politico.

Invece lo scontro generazionale covava sotto le ceneri, pronto a riesplodere alla prima occasione utile, o futile. Davvero non riesco a trovare altri argomenti più profondi, concreti e tangibili per giustificare lo scontro in atto in queste ore nel PD.

In fondo, la minaccia di scissione è una forma di elaborazione del lutto che supplisce l’incapacità di un avvicendamento naturale delle classi dirigenti. Ed è singolare che queste pulsioni suicide sfidino finanche una verità storica inconfutabile: ogni velleità di posizionarsi a sinistra del più grande partito di sinistra si è sempre rivelato un fallimento. Non solo in funzione dell’esito elettorale, ma soprattutto per lo sciame frazionistico che investe i protagonisti che lasciano la casa comune, una volta che si ritrovano senza radici, senza luogo, senza storia.

In queste ore, nel vortice delle frenetiche dichiarazione dei dirigenti del PD, non riesco a trovare traccia di quella sinistra di governo che ha sempre rappresentato la mia stella cometa.

A me non interessa sapere se le primarie si celebreranno a maggio o a settembre.

Mi interessa di più conoscere le politiche concepite per privilegiare i giovani, pur in presenza di un welfare nazionale che è in massima parte destinato in pensioni e assistenza per gli anziani che vivono sempre più a lungo.

Ciò perché considero obbligo morale di una sinistra di governo essere capace di conciliare l’enorme peso elettorale della componente anziana della società con la necessità di investire massicciamente su quella minoranza strategica per il futuro del Paese che è rappresentata dalle generazioni più giovani.

Allo stesso modo, avrei grande piacere a sapere come si intende porre un argine all’aumento sconsiderato del debito pubblico, che poi dovrà essere pagato dalle generazioni dei futuri contribuenti, senza per questo frenare ancora di più la sin troppo lenta crescita economica del Paese.

Oppure, ancora, mi piacerebbe conoscere la soluzione per far convivere la necessità inderogabile di innovazione con la triste constatazione che l’evoluzione tecnologica – che pure migliora la nostra vita di consumatori – comprime i salari e brucia posti di lavoro.

Ecco, ho elencato solo alcuni banali esempi di “dilemmi cornuti”, di distonia tra sogno e realtà, che una sinistra di governo deve essere in grado di affrontare se vuole abbandonare il limbo del mito per approdare nella realtà.

I manzoniani “capponi di Renzo” che si beccano mentre vanno a morire sono un’icona troppo triste per chi – come me – nutre una grande fiducia nella capacità degli esseri umani di dar sempre vita ad un nuovo inizio, usando il bene supremo dell’intelletto.

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