Ci sono libri che cessano di rappresentare mere occasioni di lettura e che si scopre costituiscano piuttosto necessità, perché irripetibili momenti di snodo delle forme letterarie. A sangue freddo di Truman Capote (edito da Garzanti) inaugurò con la sua pubblicazione – avvenuta tra molti clamori nel 1966 per Random House (ma già l’anno precedente se ne era avuta l’uscita a puntate sul New York Times) – un genere narrativo che non è azzardato definire nuovo: il non fiction novel da quel momento avrebbe fuso la forma del romanzo con quella del resoconto giornalistico, aprendo la strada ai molti esempi di letteratura che aspira a diventare documento.

Il libro nasce infatti dall’impulso di voler raccontare un terribile fatto di cronaca nera avvenuto il 15 novembre 1959 nel villaggio di Holcomb, Kansas occidentale, «una zona desolata che nel resto dello stato viene definita ‹laggiù›»: quattro componenti della stimatissima e benestante famiglia Clutter vengono barbaramente assassinati in mancanza di un movente adeguato a spiegare la crudeltà, la violenza, la follia del delitto, se non i quaranta dollari ricavati dalla rapina. Dalle sfavillanti luci della Quinta Strada di New York alle polverose vie di Holcomb il passo per Capote sarà breve: raggiungerà il cuore dell’America rurale, lavorerà al libro per sei anni ricostruendo il crimine, osservando, registrando, ascoltando le voci dell’America di quegli anni; tratteggerà doviziosamente le personalità delle vittime e le vite deviate degli assassini Perry Smith e Richard “Dick” Hickock senza mai cedere alla tentazione di giudicare o condannare. E sarà sempre lì, a mettere in luce i contrasti, i chiaroscuri di un mondo in cui è un nonnulla a tracciare il confine tra la solida e patinata virtù e il dispiegarsi del male. Quasi si prova imbarazzo ad entrare con tale profondità nelle pieghe esistenziali dei fantasmi tragici di questo libro, ma risiede tutta qui la necessità: è potente letteratura che inventa un nuovo giornalismo.

Diana A. Politano

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